flumini nel mondo

mercoledì 19 dicembre 2007

La capra dei sette fratelli


LA CAPRA DEI SETTE FRATELLI

Arriva un momento nella vita in cui si fanno delle riflessioni su ciò che è stata l’avventura in questo mondo. È una specie di sintesi di tutto quello che ci è capitato e di quello che abbiamo fatto di buono o di cattivo. Un resumè, una sinossi semplice che passa attraverso la mente con la serie di ricordi, a volte velati da melanconia, a volte allegri e spregiudicati, e che dopo un percorso più o meno breve d’immagini si ferma nel cuore che, secondo i casi, accelera i suoi ritmi o li rallenta.
Può darsi che non siamo soltanto noi umani a vivere questi momenti particolari della nostra vita, e che gli animali abbiano una vita sentimentale analoga alla nostra se non ancora più intensa.
Ricordo che avevo appena quindici anni quando mio padre mi portava con se intorno ai boschi dei Sette Fratelli.
Vi era la capra più affascinante della zona. Il suo mantello era liscio come quello di un cervo. Il suo manto era completamente bianco e aveva un’unica macchia nera, quasi un vezzo che le ricopriva un occhio e andava a finire su una parte della spalla destra. Lei se ne faceva quasi un vanto e quando voleva farsi apprezzare si metteva in posizione in modo che la macchia facesse risaltare l’occhio a mandorla con la grande pupilla pensosa. Si poteva ammirarla sui cigli più pericolosi della montagna a ridosso di profondi burroni dentro i quali sembrava poter precipitare da un momento all’altro. Aveva il portamento regale di una leonessa e la forza di un mulo. Le gambe s’inerpicavano lungo le pareti rocciose della montagna saltando di pietra in pietra, mentre l’occhio inseguiva l’istante in cui, immediatamente dopo il primo salto, avrebbe spiccato il secondo. Ancora in volo, sapeva già dove approdare e con un semplice sguardo aveva calcolato meglio di un ingegnere elettronico il tempo, la resistenza agli agenti atmosferici, la probabilità di caduta, il possibile smottamento della roccia, la velocità del vento, l’impatto della sua forza con il suolo.
Si poteva scorgerla sulle vette dei monti e sui picchi più alti, anche la notte, quando si stagliava sulla luna creando una suggestione che faceva venire i brividi.
Eppure venne anche per lei il momento in cui l’età fece sentire il suo peso e le ossa diventarono fragili.
Un giorno cadde e nel cadere si fratturò una gamba e non poté più saltare. L’istinto le fece compiere un movimento brusco per alzarsi, ma si dovette sdraiare nuovamente perché un dolore impossibile da resistere gli trapassò la gamba fratturata andando ad incidere profondamente sul suo cervello. Rimase allora ferma, immobile, quasi aspettando che sopraggiungesse la morte. Senza camminare, infatti, non poteva fare nulla. Si addormentò e si svegliò la mattina presto. Capì che per lei era arrivata la fine e si mise ad attendere che questa arrivasse. Aveva solo un gran desiderio: sale. Il palato sentiva il bisogno di leccare qualche cosa di salato e intuiva d’istinto che quella sostanza sarebbe stata la sua salvezza. Il sale avrebbe fortificato e cicatrizzato dall’interno la ferita, ridandole le forze per potersi alzare e camminare nuovamente in modo da potersi procacciare il cibo necessario alla sua sussistenza. Chiuse gli occhi e rimase nell’attesa e non seppe se passarono i giorni e le notti e quante ne passarono via. Stava indebolendosi sempre più senza possibilità di nessun aiuto e presto sarebbe stata preda d’animali feroci e spietati di cui incominciava a sentire la presenza nei dintorni.
Si svegliò alla carezza di una lingua che ripetutamente le leccava il viso già stanco. La riconobbe. Era la capretta che cercava di imitarla, quando lei era possente e in forze. La seguiva dappertutto cercando di spiccare gli stessi salti che compiva lei. La imitava in ogni suo gesto e prendeva la rincorsa per saltare dietro di lei, quasi per gioco, a misurare le proprie capacità e a gareggiare in bravura. Ora era lì che la leccava e forse sapeva ciò che le era capitato. O forse no, perché ad un tratto sparì e non la vide più.
Stava per morire, ma la capretta arrivò. Aveva fatto una corsa forsennata per arrivare alla strada asfaltata. Aveva percorso vallate, dirupi, colline. Superato ruscelli e guadato acque. Oltrepassato cespugli, arrampicato erti pendii ma, alla fine, aveva trovato l’asfalto. Stava per cadere sotto le ruote di un’auto lanciata a folle velocità, ma lei con un guizzo riuscì ad evitarla. Si fermò solo davanti al mucchio di sale che i lavoranti avevano depositato per rendere meno ostile la neve dell’inverno.
Ne prese con la bocca alcuni grumi, tutti quelli che riusciva a mantenere nella bocca e rincominciò il percorso che aveva fatto all’andata, ma con più velocità, quasi presagendo che da lei dipendeva la vita della capra invalida. Arrivò in fine che aveva la bava alla bocca, ma era stata capace di tenerla chiusa nonostante avesse più volte desiderato aprirla per inspirare a pieni polmoni l’aria di cui aveva bisogno per riprendere fiato. Aveva resistito ed ora poneva i piccoli granelli di sale sulle labbra secche e calde della capra morente. Questa riaprì ancora una volta gli occhi quasi in segno di ringraziamento per la generosità della sua giovane allieva. Vide che la piccola sorvegliava tutta la zona, con le gambe ben ritte e la testa alta, lo sguardo fermo e deciso, e con la forza che sprigionava dal suo portamento eretto, degna rappresentante di quella razza fiera che vagabondava senza vincoli nei boschi, quasi a simboleggiare la libertà.
Non possiamo sapere ciò che le passò per la mente in quei pochi momenti che precedettero la morte, ma è bello credere che chiuse gli occhi felice nella convinzione che la sua vita non era trascorsa invano.
(Paolo Maccioni)

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