flumini nel mondo

domenica 24 luglio 2011

Il parco di Matzanni


Reperti archeologici abbandonati a se stessi
L’archeologia in Sardegna potrebbe essere in grado di attirare una grande massa di visitatori da tutto il mondo a causa dell’unicità della sua storia e dei suoi monumenti.
Un enorme tesoro giace inutilizzato nel territorio della Sardegna e aspetta di essere recuperato, valorizzato e messo a disposizione della Comunità Internazionale.
Questo patrimonio, destinato altrimenti alla sicura distruzione da parte della natura e dell’uomo, adeguatamente messo in risalto  insieme alle sue storie e alle sue leggende contribuirebbe ad una sicura affermazione turistica della Sardegna.

Parliamo del parco di Matzanni, a Vallermosa.

La località denominata Matzanni o Matzani è stata per millenni solo un magro pascolo per capre.
Nel 1892 alcuni pastori riuscirono ad intravedere tra gli sterpi che coprivano tutta la zona delle costruzioni semisepolte di incerta tipologia.
Vennero organizzate delle spedizioni di ricercatori di tesori che incominciarono subito a scavare .
Gli scavi condotti con metodi alquanto sbrigativi diedero tuttavia dei risultati in termini di ritrovamento di oggetti: monete,vasi,e suppellettili varie.
Il bronzetto denominato Barbetta
I reperti ritrovati sparirono dalla circolazione, solo due di essi furono recuperati:  un bronzetto  denominato “Barbetta” e una ciotola di bronzo dorato.
I ricercatori ufficiali ai quali vennero successivamente affidati gli scavi, pensavano di trovare dei nuraghi sotto le macerie, ma si imbatterono invece nei pozzi.

Il pozzo sacro è l'edificio di culto per eccellenza della civiltà nuragica. Se ne conoscono una quarantina in tutta la Sardegna e sono presenti a nord come al centro e a sud dell'isola, senza particolari differenze costruttive.
ingresso al pozzo sacro
I pozzi erano sede di culto e, gelosamente custoditi, contenevano l’acqua magica, che effettuava prodigi e guarigioni. In essi si praticavano antiche cerimonie come l’ ordalia o giudizio di Dio.

Lordalia era il “Giudizio di Dio” in cui veniva appurata la colpevolezza di un imputato. Se l’acqua non gli danneggiava gli occhi era giudicato innocente. Anzi riceveva un miglioramento delle sue facoltà visive. Altrimenti il colpevole era punito con la cecità.
Da qualche parte, ancora oggi, si usa l’espressione: “ che diventi cieco se sono colpevole.”





martedì 12 luglio 2011

Convento delle suore della redenzione Quartu

Si devono al laboratorio della lettura, della ricerca e della scrittura creativa del Centro Sociale Anziani Piazza IV Novembre, coordinato dalla dott. Carmina Sciolla, le poche notizie storiche su questo convento e sulle suore che vi vivono in regime di clausura. Il convento è stabilmente inserito tra i monumenti  di Quartu,  aperti al pubblico anche ultimamente, nelle giornate di sabato 21 e domenica 22 maggio scorso.
Le notizie sono state raccolte da testimonianze orali poiché poco o nulla esiste di scritto, e le poche persone che presumibilmente hanno una conoscenza più vasta, sono inspiegabilmente non  disponibili. ( La sig.ra  Alessandra De Valle,  protagonista di una conferenza tenutasi il  21/03/2011, organizzata dalla Associazione Culturale "IL COLLE VERDE" di via Castiglione 1 - Cagliari, dal titolo “Madre Anna Figus, una mistica del XX secolo per le donne in difficoltà”,  interpellata personalmente tramite mail dirette e facebook per avere  chiarimenti sulla conferenza, non essendoci il modo di accedere per altre vie ai risultati della stessa,  ha ritenuto inspiegabilmente di non  rispondere, almeno fino ad oggi, alle  richieste.)
Madre Anna del Gesù (al secolo Anna Figus)
Le suore che vivono nel convento chiamato: Suore della Redenzione " Convento Claustrale dell'Addolorata " sono sette.
La Congregazione fu istituita dalla Madre Anna del Gesù ( al secolo Anna Figus)  a Cagliari nel 1935, in Castello, dove ancora c'è la casa madre.
L'ordine nacque per redimere le prostitute. Del resto, questo fu il pensiero di Madre Anna, Gesù, nella sua vita, non aveva perdonato la Maddalena, una di loro?
Con molte difficoltà nacque l'Ordine delle Suore della Redenzione le cui suore erano dette riparatrici  perchè si occupavano del recupero di quelle ragazze a rischio avviandole a lavori diversi.
Le sette suore sono tutte molto anziane e vivono ora di carità.
Nel 1985, nel 50° anniversario della fondazione dell'ordine  fu attribuito a Madre Anna il premio Eleonora D'Arborea, il fiore all'occhiello dell'Inner Wheel di Cagliari ( Rotarj Club). Nemmeno di questo avvenimento sono per il momento riuscito ad avere documentazione.


La dott. Carmina Sciolla,  Coordinatrice del Centro  Sociale Anziani di Quartu S.E. alla quale si devono le poche notizie conosciute sul convento



martedì 5 luglio 2011

Liuteria e Giuseppe Triolo

La liuteria è l'arte della costruzione e del restauro di strumenti a corda ad arco (quali violini, violoncelli, viole, contrabbassi, ecc.) e a pizzico (chitarre, bassi, mandolini, ecc.). Il nome deriva dal liuto, strumento a pizzico molto usato fino all'epoca barocca. È un'arte e tecnica artigianale che, dall'epoca classica della liuteria (XVII, XVIII secolo), è giunta fino ai giorni nostri quasi immutata. (Wikipedia )

L’arte di costruire strumenti a corda vanta una storia antica. I primi liutai furono tedeschi, ma presto la costruzione di viole e violini si diffuse anche in Italia.

Durante il Rinascimento in Italia vi fu un gran fermento nell'attività liutaria. Famosa per le sue botteghe fu ed è anche oggi, la città di Cremona che ospitò, tra le altre, le botteghe di Antonio Stradivari e Giuseppe Guarneri, probabilmente i più grandi liutai della storia.

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Antonio Stradivari idealizzato in una stampa del XIX secolo

In Sardegna la prima scuola per liutai è stata aperta da Giuseppe Triolo.
Giuseppe Triolo, liutaio autodidatta, dopo un'esperienza ventennale a Torino, apre il laboratorio di liuteria a Monserrato, collabora con i migliori musicisti sardi e fonda la prima scuola privata di Liuteria in Sardegna. Oggi opera in via Terralba e qui costruisce tutti i suoi strumenti musicali a corda.

Giuseppe Triolo al lavoro nel suo laboratorio
Chi entra nel laboratorio di Triolo vi troverà una grande quantità di oggetti,  soprattutto musicali,  sparsi in un angusto spazio saturo di particolari che spuntano da ogni angolo e pretendono l'attenzione dell'osservatore senza dargli un attimo di respiro. In questo laboratorio - museo, apparentemente in disordine, Triolo vi mostra e vi racconta le creature della sua fantasia mentre le sue mani continuano a lavorare come se fossero indipendenti dal resto del corpo e fossero animate da una propria volontà.  Nelle foto che seguono sono evidenziate solo alcune creazioni di Triolo il cui estro spazia in diverse direzioni:  oltre la musica vi è la pittura, la  scultura, la miniatura ed in ciascuna di esse  può scorgersi la passione che lo ha ispirato.

scultura

pittura

chitarre e contrabbassi

mandolini e chitarre
Nel mio primo romanzo pubblicato nel 2003, intitolato La guerra del Pellicano,  vi è un brano che racconta di un negozio di antichità gestito da un certo Zoachin al centro di Milano in cui l'ambieente non era tanto dissimile da quello chee si respira nel laboratorio di Triolo.
Il romanzo da cui è estratto il brano che segue
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... La sua bottega era inverosimile in una città come Milano; il locale del tutto privo di insegne e all’apparenza dimesso e insignificante era in una piccola traversa di una delle principali vie che circondano il Duomo. Dentro la bottega era tutto un disordine di oggetti di varia natura che, seppure certamente preziosi, non invogliavano all’acquisto tanto erano messi alla rinfusa e non composti con la cura che avrebbero meritato per risaltare di più. Si trattava di oggetti di ogni genere, un campionario vastissimo di quello che l’operosità e l’estro dell’uomo, nel corso dei secoli, ha prodotto con le proprie mani: pietre preziose, piccoli tavolini e mobiletti d’epoca, posate, argenteria varia, coppe di cristallo, bottiglie. Scintillavano di mille colori e mille riflessi: perle, topazi, collane e braccialetti, portaritratti, corni d’avorio, oggetti provenienti da tutti i paesi del mondo in una baraonda completa e tale che sarebbe stato impossibile a chiunque raccapezzarsi.
Solo lui si trovava a suo agio in quell’immenso disordine. Nella sua mente fotografica, ogni oggetto era perfettamente classificato e catalogato con una precisione tale che in ogni momento ne conosceva l’esatta ubicazione.
Il profilo di Zoachin rassomigliava ad una mezzaluna crescente nella quale il naso non superava la linea ideale tra le due estremità, sembrava una mezza parentesi tonda. Scuro di capelli e di pelle, con due labbra sottili che quasi non si vedevano, inserite in una barba folta e anch’essa scura con tendenza ad imbianchirsi, aveva un’età indefinibile. Il suo aspetto faceva pensare vagamente agli antichi egizi e nel suo sangue vi era sicuramente un miscuglio di razze delle quali non si sarebbe potuto dire quale fosse la preminente, di ognuna si scorgevano le tracce caratteriali essenziali, ma nessuna riusciva a prevalere. Soleva radersi la barba con rapidi tagli di forbici fino a poco più giù del mento per cui essa risultava quasi quadrata, come quella degli antichi faraoni; anche il suo modo di vestire avvalorava questa impressione, una tunica colorata lo ricopriva dalle spalle ai piedi, come unico indumento, e da sotto la tunica spuntavano comode babbucce. Dalle tasche della tunica Zoachin tirava fuori le cose più impensate: forbici, coltelli, creme, cose che adoperava per lucidare, intagliare, strofinare. Era sempre immerso in un continuo lavorio sulle cose che lo circondavano …
il racconto prosegue e Zoachin trova un oggetto da regalare ad una sua amica che era andata da lui per sentirsi consolare delle sue pene )  
Si trattava di un’anfora con due esili braccia di cui una era interrotta a metà, come se l’artigiano che l’aveva iniziata non avesse potuto o voluto terminarla. La imperfezione di quell’anfora era uno dei motivi che la rendevano preziosa.
La fattura della maiolica e le decorazioni di fiori azzurri che la adornavano appartenevano alla scuola Olandese della fine del settecento, e agli occhi disincantati di tutti, anche se esperti, quell’anfora poteva rappresentare niente di più che un pezzo pregiato di maiolica decorata a mano.
Nella fabbrica in cui si lavoravano quelle fini ceramiche entrò un giorno una potente Marchesa di Francia; aveva chiesto ai suoi domestici di portarla con la carrozza fin fuori Amsterdam, dove vi era la fabbrica, per accertarsi dello stato dei lavori delle sue ordinazioni di vasi, anfore e piatti, tutte  con decorazioni floreali.
Fece il suo ingresso ossequiata da tutti, e mentre osservava i lavori giunti a buon punto, entrò inaspettatamente nella stessa fabbrica anche il marito, titolare del Marchesato che rappresentava allora una delle maggiori estensioni di quelle lande sopravvissute al mare olandese.
Nel vederlo lei divenne pallida, estrasse un acuminato stiletto che teneva celato nel suo corpetto e lo infilò nel petto del marito. E dopo aver assassinato il marito, rivolse lo stiletto su se stessa e lo infilò proprio sotto la gola uccidendosi a sua volta.
Alcune gocce di sangue caddero nel recipiente dove le operaie pittrici tenevano i loro colori, e alcune venature di rosso determinarono un cambiamento nella tinta che serviva per colorare le maioliche.
Il motivo di quell’assassinio non fu mai chiaramente accertato ma le voci dissero che tutto si era svolto a causa di un figlio concepito da lei in condizioni non perfettamente legittime, la cui scoperta avrebbe provocato in quei tempi lontani uno scandalo dalle proporzioni gigantesche e dalle conseguenze insostenibili.
Il vaso aveva da un lato delle evidenti striature rosse, e anche sui fiori azzurri il colore era accompagnato da qualche venatura di rosso. Quello era il sangue della nobildonna e del suo consorte. Il lavoro delle operaie venne subito interrotto e quelle maioliche imperfette passarono di mano in mano finendo per disperdersi. Soltanto due di esse si salvarono: considerate prive di valore rimasero chiuse in una cassa del magazzino della fabbrica dove, qualche secolo dopo, furono rinvenute.
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giovedì 23 giugno 2011

Conchita Tironi

Conchita Tironi  è nata ta a Carbonia e vive a Quartu S,Elena. Lavora nello studio di un commercialista, è sposata, ha una figlia, ha praticato la pallacanestro ad alti livelli. Scrive poesie e racconti, alcuni pubblicati da Giulio Perrone Editore. Calepino è il primo romanzo.

154 pagine suddivise in tanti capitoli quante solo le lettere dell’alfabeto con qualche lettera come la “I” e la “T” alle quali ne sono riservati due, e tre capitoli finali.  Ogni lettera ha inoltre un suo algoritmo letterario che significa : dimostrare che, partendo da una sequenza finita di parole logiche, ma apparentemente non assemblabili, si può arrivare a una storia con significato logico.
Alcuni di questi algoritmi sono convincenti altri un po’ meno e occorre faticare per identificare il significato logico. Ma è un gioco e come tale va preso. E allora scopriamo che il gioco si rivela assai interessante quando certe affermazioni apparentemente usuali e di senso comune vengono appropriatamente connesse con la realtà che ci circonda.
 Bene ha fatto la scrittrice al termine della sua opera ad augurarsi che il lettore dica ad un amico: “Ti presto un libro. Ma riportamelo perché mi fa piacere rileggerlo.”  In effetti i singoli episodi che compongono la trama assurda, scorrono via con sequenze divertenti coniugate con personaggi veri e reali, ( ad esempio: … Demonio, una parola molto astuta e piena d’attività disoneste, dall’aspetto poco raccomandabile e con due piccole corna sulla testa…. )  che possono fare la gioia dei piccoli lettori, ma che, nella composizione delle parole attinenti al tema principale, invitano il lettore più maturo a scoprire  significati diversi da quelli narrati ai bambini.  Perciò la serie di proverbi, di luoghi comuni, di modi di dire  che si adattano ad una situazione ma che significano anche qualche altra cosa, da cui l’invito della scrittrice a rileggere il libro non una, ma più volte, perché ogni volta si scopre qualche cosa di nuovo e di insolito che prima ci era sfuggito. Il libro diventa così una scatola magica da cui fuoriescono, nascosti in un turbinio di parole, concetti a getto continuo che occorre ricercare e interpretare. L’enigmistica, con i suoi rebus, anagrammi, crittografie etc. ha la stessa capacità di obbligare alla riflessione e alla ricerca, ma il risultato di ciascuno dei suoi giochi  è uno solo, mentre Conchita Tironi lascia il campo alla fantasia di ognuno e alla sua capacità di fantasticare. Ne è consapevole anche lei che termina dicendo:
Questo è un libro fine, sottile direi.
Alla fine, c’è un secondo fine.
In fin dei conti c’è un principio e una fine.
alla fine dei fini … è senza fine.

sabato 18 giugno 2011

Festa delle torte

II programma è allettante

La giuria è pronta

Vota  senza lasciarsi influenzare


I premi  aggiungono soddisfazione  agli artefici delle opere in gara 

Sono ricchi e numerosi


le sorprese piacevoli sono molteplici

La musica arricchisce la serata e la sua fine illanguidisce gli animi

Notte d'estate
L'acqua della fonte
suona il suo tamburo
d'argento.
Gli alberi
tèssono il vento
e i fiori lo tingono
di profumo.
Una ragnatela
immensa
fa della luna
una stella.
F. Garcia Lorca


giovedì 2 giugno 2011

Requiem di Fouré a Quartu


il soprano Elisabetta Scano
In occasione di Monumenti Aperti si è svolto a Quartu nella chiesa di S. Agata domenica 22 Maggio,  in collaborazione con l'associazione " Incontri musicali" e il " Collegium Kalaritanum"   il concerto " Requiem di Fouré in re minore. Protagonisti di prestigio il soprano Elisabetta Scano,  il baritono Nicola Ravarino Guagenti e l'organista Fabrizio Marchionni. Tutti diretti dal maestro Giacomo Medas.


Gabriel Fouré
Gabriel Urbain Fauré (Pamiers, 12 maggio 1845 - Parigi, 4 novembre 1924) è stato un compositore e organista francese. Con debussy, Ravel e Saint-Saens, è uno dei grandi musicisti francesi della fine del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo
Il Requiem, Op. 48, non fu composto in memoria di una persona in particolare, ma come dicono le parole di Fauré, ‘solo per il piacere di farlo’. Molti lo descrivono come una ninna nanna della morte. Persino oggi, in molte zone d'Italia, il canto dell'In paradisum, segue la messa funebre e precede il pio ufficio della sepoltura. ( Wikipedia)

martedì 17 maggio 2011

Monumenti aperti. Cagliari: Chiesa di Santa Lucia

Particolare della chiesa di Santa Lucia
(foto di Gianfranco Calzarano)
In occasione dei monumenti aperti ha suscitato interesse il concerto tenutosi nella chiesa di Santa Lucia di Cagliari, in Castello. Significativo l’accostamento delle origini della chiesa con gli strumenti che hanno suonato in quella occasione. Mi riferisco in modo particolare alla viuhela de mano suonata da Mario Murgia accompagnato dal flauto di Cinzia Ligas.
Ebbene, qualcuno avrà assaporato l’atmosfera di un tempo, quando Innocenzo III regalò ad un gruppo di Clarisse che provenivano da Barcellona tutto il complesso nel quale si trovano anche le mura della chiesa.
Allora la vihuela era in auge  ed era lo strumento signorile per eccellenza che allietava le corti di mezzo mondo e, naturalmente anche quelle isolane.
vihuela de mano
Nel ricordare quel periodo storico, oltre ai momenti di gaudio vengono in mente episodi torbidi come quando Antonio de Cardona i Requesens viene nominato viceré di Sardegna dall'Imperatore Carlo V ( siamo intorno al 1535) e costui vuole fare chiarezza su un ammanco nelle casse dello stato di una somma imponente di denari, chiamando in causa la nobiltà isolana guidata dalle più illustri famiglie nobili di Sardegna gli Zapata e gli Aymerich.
Ma la nobiltà locale si ribella e tenta di coinvolgere la Viceregina Maria de Requesens in certe pratiche stregonesche scoperte da poco dall'Inquisizione creando un collegamento tra la viceregina e Domenica Figus una famosa strega appena catturata dalla Santa Inquisizione, insieme al suo amante Truisco Casula.
particolare della vihuela
L’indagine della Santa Inquisizione coinvolge un po’ tutti lavorando come suo solito, cioè estorcendo testimonianze e minacciando il carcere. Donne di malaffare vengono coinvolte e alcuni aspetti degradanti della vicenda, come l’ipotesi che vi siano cortigiane del demonio a corte, vengono opportunamente ingigantiti Vengono raccolte testimonianze, alcune delle quali chiamano in causa proprio la Viceregina. Si parla di riunioni segrete, orge, messe nere, sortilegi perpetrati dalla strega Domenica contro alcuni notabili cittadini, allo scopo di danneggiarli.
La Corte organizza la controffensiva. Il Viceré si appoggia al nuovo vescovo di Alghero, Pietro Vaguer, giunto nell’isola come nuovo incaricato per l’Inquisizione. 
A Cagliari Vaguer scopre che il caso Figus-Casula è una montatura. Trova un carteggio imbarazzante: una quarantina di confessioni estorte, testimonianze inattendibili di gente di bassa moralità, fatti così gravi, da minare il prestigio della stessa Inquisizione.


Cinzia Ligas e Mario Murgia 

Figus e Casula diventano le “cabezas del dimonio” che spiccano su Gente vil, baixa, borrachos, altri testimoni sono inattendibili, tra cui donne che avevano cooperato a imbastire il fantasioso castello di accuse e si erano date a licenziosità di ogni genere, costrette a pressioni morali e materiali di ogni tipo, purché forniscano uno spunto per arrivare a colpire la Corte.
La pratica passa all'Inquisizione spagnola che proscioglie, manco a dirlo, tutti i nobili coinvolti, compresa la moglie del viceré,  e condanna gli accusatori  per aver falsificato le testimonianze in quanto rese sotto tortura.
 ( Per notizie più dettagliate vai su: Wikipedia e Passeggiate semiserie, Marina , di Giuseppe Luigi Nonnis, La Riflessione 2007, nonchè altri vari su internet alla voce: Folch de Cardona) .