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mercoledì 28 maggio 2014

Tramvie della sardegna

Un grande successo ha incontrato il "reportage" preciso, ricco di dati e di cifre.di illustrazioni e di commenti che il dottor Carlo Corda ha svolto l'otto maggio 2014 nella Biblioteca Comunale di Flumini.

Le Tranvie della Sardegna  furono attive a Cagliari e nel Campidano dal  1893 al 1973. La rete tranviaria ha avuto varie modifiche nel corso degli anni, ma coloro che hanno una certa età  e  l’hanno utilizzata,  ricordano due linee, quella che collegava Cagliari al Poetto e l’altra che invece univa il capoluogo  ai paesi del Campidano, passando per Pirri, Monserrato, Selargius, Quartucciu e infine Quartu, con la stazione terminale  in via Brigata Sassari dove oggi vi sono ancora i capolinea di filobus e autobus.  Chi abitava in uno di quei paesi in cui passava il tram,  ricorda molto bene quel mezzo di trasporto, con due o tre vagoni oltre la motrice, con cui si raggiungeva la città per motivi di studio, o per lavoro, o anche per comprare  al mercato del Largo Carlo Felice, quando ancora questo non era stato soppresso per far posto agli attuali istituti bancari. 
Il dott.Carlo Corda presenta la sua relazione sulle tramvie di Cagliri e Campidano
un'altra immagine di Crlo Corda mentre illustra il suo lavoro

Una parte delle persone interessate alla visione del reportage

Altre persone presenti alla conferenza

Un primo piano del dottor Carlo Corda.  medico e scrittore autore del libro “Loro parlano con i tacchini”,  e di altri racconti che hanno avuto successo in vari concorsi ai quali Carlo Corda ha partecipato.



martedì 31 luglio 2012

Le invasioni barbaresche


Una poesia di Attilio Maccioni, Cavalieri di vento, ha dato il nome al suo decimo volume di poesie pubblicato postumo nel  1996:

Cavalieri di vento


Noi isolani
cavalieri di vento
tutte le dominazioni
ci hanno spezzato i denti
che cosa ne sappiamo
della libertà?

Ci hanno costretto il cervello dentro una scatola
romani e pisani e aragonesi
sono venuti dai più lontani paesi
a sedersi all’ombra delle querce
fenici e saraceni
e un loro grido ci faceva tremare
anche se non avevamo la malaria.

Noi isolani
cavalieri di vento.
La nostra terra era un letto
per le tribù marocchine:
le donne non furono mai bambine
in quest'isola di conquista.
Sulla cima del Bellavista
si raccoglievano e all’Orthobene
 in mezzo ai monti della Barbagia
le genti disperate in odio al mare.
Noi isolani
cavalieri di vento.

Inutile battersi con la bufera:
ci hanno spezzato i denti
tutte le dominazioni:
hanno succhiato tutto hanno lasciato
le ossa spolpate pietre
nuraghi alberi storti
conchiglie sopra i monti
deserte fonti
e la veste nuziale
di broccati damaschi e filigrane
barbarie orientale
gettata ad ornamento
delle spose bambine
dalle tribù beduine.

È rimasta la terra una romantica
terra fuori dal tempo
terra di poca gente
e di poche faccende.

È rimasta la terra
e noi di tanti semi estremo frutto
a rifarla di  vento
cavalieri.

È rimasta la terra
ansia di libertà vergine sangue
che alle deserte vene
torna come alla zolla
torna il seme e alla fonte
l'acqua dimenticata.

E l‘isola groviglio
di serpi e pettirossi
di rovi e di violette
cerca col suo tormento
la libertà.
(Attilio Maccioni)





Sulle invasioni barbaresche in Sardegna si è detto e scritto molto ma le fonti sono scarse.
Credo di aver letto solo una minima parte di tutto ciò che si è scritto in proposito, e quello che ho trovato mi ha lasciato l’amaro in bocca. Le incursioni hanno determinato sempre o quasi sempre la sconfitta dei poveri abitanti soprattutto delle coste ( i nostri antichi progenitori) che si sono visti depredare dei loro beni più preziosi non escluse le loro donne e i loro bambini. Poche volte ho trovato la ribellione dei sardi e i combattimenti invece della loro fuga,  e poche volte ho trovato il  nome di qualche eroe nostrano che sia uscito vincitore dalle battaglie contro gli invasori. Poche volte, insomma, ho visto spezzare i denti al nemico come lui ha fatto con noi, per dirla con Attilio Maccioni.
Armata Saracena
Gli storici, come il professor Francesco Casula che ci ha intrattenuto con una conferenza sull’argomento  alla biblioteca di Flumini il giorno 26 Luglio 2012, dicono che certamente questi atti di eroismo e di ribellione strenua ci sono stati ( anzi Casula precisa di averne catalogato almeno una cinquantina, tra cui spicca la figura di Bernardino Puliga di Siniscola)  e che la mancanza della conoscenza dipende dal fatto che la storia la fanno i vincitori e noi non siano stati tra quelli. Ma anche perché, se la Sardegna non avesse opposto una strenua resistenza, sarebbe stata colonizzata con tutte le conseguenze del caso per l'intero mondo di allora.  Purtroppo non ho trovato molto altro e allora volentieri mi rifugio nella fantasia  accettando anche ciò che scrivono autori che storici non sono.
Così apprendo che una flottiglia tunisina, con settecento uomini la notte del 5 giugno del 1806 sbarca nelle spiagge di Orosei. La popolazione riesce a mettere in fuga i nemici: ottanta e più cadono fra morti e feriti, a fronte di un solo sardo morto e un ferito. ( Questo è il fatto storico e la fonte è Pietro Martini.)
E di questo terribile episodio vi è riscontro anche nella leggenda narrata da Michele Carta nella sua Guida turistica di Orosei pubblicata a cura del gruppo Folk di Orosei dalla Pubblisar di Cagliari nel 1988 .

Tommaso Moiolu e i saraceni
L'alba del 6 giugno 1806 sta per portare un nuovo lutto all paese ancora assonnato. una piccola flotta di velieri saraceni approda sulla spiaggia di Avalé, e subito una folta schiera dl oltre 700 uomini assetati di sangue e avidi di bottino s'incamminano silenziosi verso le prime case del piccolo centro rurale.
Nel rione periferico di S. Salvatore abitava Tommaso Moiolu, uomo forte e coraggioso il quale, destato dall’insolito brusio provocato dai primi barbareschi sopraggiunti e insospettito dall’incomprensibile parlottio, si armò di un lungo spiedo e con ardire aprì d’improvviso l'uscio, infilzando il primo dei nemici che gli si avventò contro e avvertendo del grave pericolo i suoi compaesani con terribili urla. Un certo Antonio Gozza, uscito incautamente a rendersi conto della situazione venne fulminato sull’uscio da una scarica di trombone.
Orosei, torre della vecchia prigione
 Ma intanto la sorpresa del|’assalto era sfumata: l'intero villaggio s’era destato e già si organizzava una valida difesa. Donne e bambini venivano portati al sicuro nella torre di S. Antonio, da dove gli archibugi iniziavano a mietere le prime vittime nelle file avversarie, ormai sgomente per l'inaspettata reazione. Intanto intervenivano anche i cavalieri miliziani e nel volgere di poche ore l'assalto si tramuto, per le orde barbaresche, in una catastrofica rotta disseminata di circa ottanta morti, cui si aggiunse un gran numero di feriti e di prigionieri.
  Pochi giorni dopo lo sbarco, una fanciulla del villaggio, ormai tranquilla perché gli invasori erano fuggiti, morti o prigionieri, andava a prendere l‘acqua da una fontana coperta, molto antica, stando ai gradini consunti, situata in una località amena prossima a Osala. Credette di sognare udendo un gemito che proveniva dalla fonte. Vi era un giovane, riverso proprio sugli ultimi gradini. La donna lo soccorse come meglio poté e, a gran fatica lo condusse in una caverna ampia e ben dissimulata da cespugli. Con le cure e il cibo, il giovane corsaro guarì, ma solo a cenni poté ringraziare la sua salvatrice, offrendole un ciondolo che teneva appeso al collo con una catenina d’oro. La fanciulla l'aperse con mani tremanti e dentro vi trovò la medaglia di N.S. della Mercede. Si sentì morire: anche lei ne aveva una uguale, nella stessa custodia, c cosi gli altri tre figli. Era dunque il fratello che lei aveva potuto salvare, il caro fratellino portato via dai Mori all’età di 4 anni.
Tra i Turchi catturati, uno fu concesso come schiavo a Marianna Gozza, figlia dell'unico tra i sardi caduto nella battaglia, Antonio Gozza: quegli si sdebitò con lei servendola con fedeltà e bonificandole il terreno che trasformò in un giardino.
Un altro prigioniero, affidato ad una famigli di ricchi proprietari terrieri, si rivelò un esperto contadino. Mustafà possedeva il dono di riconoscere il momento più adatto per la semina: ai quattro angoli delle tanche disponeva, conficcandoli nel terreno, dei rudimentali pioli confezionati direttamente da lui, che ogni tanto andava a controllare, annusandoli e riponendoli nel terreno se l’odore non era di suo gradimento. Gli altri agricoltori aravano e seminavano i loro campi, ma lui sempre lì ad annusare e riporre i suoi pioli. Quando finalmente questi emanavano il profumo voluto, in un sol giorno, anche facendo uso di parecchi gioghi, arava e seminava tutti i campi del padrone. Mai un’annata sfavorevole: le messi erano sempre abbondanti e il  padrone si abituò, dimenticando la sua origine, a trattarlo come il suo migliore amico.


martedì 17 maggio 2011

Monumenti aperti. Cagliari: Chiesa di Santa Lucia

Particolare della chiesa di Santa Lucia
(foto di Gianfranco Calzarano)
In occasione dei monumenti aperti ha suscitato interesse il concerto tenutosi nella chiesa di Santa Lucia di Cagliari, in Castello. Significativo l’accostamento delle origini della chiesa con gli strumenti che hanno suonato in quella occasione. Mi riferisco in modo particolare alla viuhela de mano suonata da Mario Murgia accompagnato dal flauto di Cinzia Ligas.
Ebbene, qualcuno avrà assaporato l’atmosfera di un tempo, quando Innocenzo III regalò ad un gruppo di Clarisse che provenivano da Barcellona tutto il complesso nel quale si trovano anche le mura della chiesa.
Allora la vihuela era in auge  ed era lo strumento signorile per eccellenza che allietava le corti di mezzo mondo e, naturalmente anche quelle isolane.
vihuela de mano
Nel ricordare quel periodo storico, oltre ai momenti di gaudio vengono in mente episodi torbidi come quando Antonio de Cardona i Requesens viene nominato viceré di Sardegna dall'Imperatore Carlo V ( siamo intorno al 1535) e costui vuole fare chiarezza su un ammanco nelle casse dello stato di una somma imponente di denari, chiamando in causa la nobiltà isolana guidata dalle più illustri famiglie nobili di Sardegna gli Zapata e gli Aymerich.
Ma la nobiltà locale si ribella e tenta di coinvolgere la Viceregina Maria de Requesens in certe pratiche stregonesche scoperte da poco dall'Inquisizione creando un collegamento tra la viceregina e Domenica Figus una famosa strega appena catturata dalla Santa Inquisizione, insieme al suo amante Truisco Casula.
particolare della vihuela
L’indagine della Santa Inquisizione coinvolge un po’ tutti lavorando come suo solito, cioè estorcendo testimonianze e minacciando il carcere. Donne di malaffare vengono coinvolte e alcuni aspetti degradanti della vicenda, come l’ipotesi che vi siano cortigiane del demonio a corte, vengono opportunamente ingigantiti Vengono raccolte testimonianze, alcune delle quali chiamano in causa proprio la Viceregina. Si parla di riunioni segrete, orge, messe nere, sortilegi perpetrati dalla strega Domenica contro alcuni notabili cittadini, allo scopo di danneggiarli.
La Corte organizza la controffensiva. Il Viceré si appoggia al nuovo vescovo di Alghero, Pietro Vaguer, giunto nell’isola come nuovo incaricato per l’Inquisizione. 
A Cagliari Vaguer scopre che il caso Figus-Casula è una montatura. Trova un carteggio imbarazzante: una quarantina di confessioni estorte, testimonianze inattendibili di gente di bassa moralità, fatti così gravi, da minare il prestigio della stessa Inquisizione.


Cinzia Ligas e Mario Murgia 

Figus e Casula diventano le “cabezas del dimonio” che spiccano su Gente vil, baixa, borrachos, altri testimoni sono inattendibili, tra cui donne che avevano cooperato a imbastire il fantasioso castello di accuse e si erano date a licenziosità di ogni genere, costrette a pressioni morali e materiali di ogni tipo, purché forniscano uno spunto per arrivare a colpire la Corte.
La pratica passa all'Inquisizione spagnola che proscioglie, manco a dirlo, tutti i nobili coinvolti, compresa la moglie del viceré,  e condanna gli accusatori  per aver falsificato le testimonianze in quanto rese sotto tortura.
 ( Per notizie più dettagliate vai su: Wikipedia e Passeggiate semiserie, Marina , di Giuseppe Luigi Nonnis, La Riflessione 2007, nonchè altri vari su internet alla voce: Folch de Cardona) .





giovedì 9 settembre 2010

Modigliani e la Sardegna

Un piccolo ritratto lega Amedeo Modigliani alla Sardegna.

Si tratta della giovane Medea Tacci, amica e compagna di giochi nel periodo trascorso in Sardegna, che morì a causa di una meningite fulminante. Modì, allora quattordicenne, decise di ritrarla per farne dono alla famiglia. La giovane è ritratta di profilo con una tecnica pittorica ben lontana dalle linee stilizzate e sinuose della più conosciuta maniera di Amedeo Modigliani.

All’epoca l’artista si trovava a Grugua, un’immensa tenuta dell’iglesiente di proprietà della famiglia Modigliani, che già da tempo stringeva amicizia con Tito Taci, imprenditore toscano, padre di Medea.



Amedeo Modigliani nacque a Livorno, il 12 luglio 1884 e, come riportano le sue numerose biografie la sua non fu una vita felice. Quando nacque l'Ufficiale Giudiziario bussò alla porta in via Roma n. 38 per eseguire il pignoramento mobiliare a seguito del fallimento del padre di Amedeo, Flaminio Modigliani, commerciante di legname e minerali.

Flaminio Modigliani era un imprenditore minerario livornese che operava in Sardegna e in Lombardia nel settore minerario ricercando ed impiantando miniere di piombo e zinco. La ditta dei Fratelli Modigliani arrivò da Livorno in Sardegna verso il 1874. Essi gestivano assieme a Enrico Serpieri divenuto il padre della metallurgia dell’isola e che poi a Livorno nel 1883 sarà il fondatore della Soc. Montecatini, la miniera di piombo di Baueddu (Malacalzetta). Nella foto la casa dei Modigliani a Grugua. 


Ingresso alla tenuta Modigliani


Ruderi villa Modigliani



Nel 1881, tutto il settore dei metalli entrò in crisi e molte miniere sospesero l’attività  causa della discesa del prezzo dello zinco. Nel 1882 il prezzo dei metalli continuò a scendere Nel 1883 il prezzo dello zinco diminuì ulteriormente e il 15 ottobre 1883 la "Societè des Zincs Francais" che operava in Sardegna fu dichiarata fallita a Parigi. Gli avvenimenti per i Modigliani precipitarono all’inizio del 1884 precisamente il 31 Marzo, quando da Livorno sopraggiunse a Bergamo il foglio annunci legali con riportato il loro fallimento.

La proprietaria delle miniere divenne la Banca di Roma, creditrice dei Modigliani. Le miniere di queti ultimi restarono attive fino ai giorni nostri.

Il piccolo Modì venne allevato dalla madre e abbandonò presto gli studi per darsi totalmente alla sua passione artistica.
(nudo) 
I dissapori del padre Flaminio e la madre aumentarono fino ad arrivare alla separazione.

Modì si allontanò presto dalla famiglia per cercare una sua via. Conobbe momenti di grande difficoltà aggravati dalla sua cagionevole salute e dalle abitudini viziose fino a trovare la morte in età giovanissima.

E' lecito immaginare che il miglior periodo della sua vita sia stato proprio quello vissuto in Sardegna, trascorso nella spensieratezza della adolescenza e tra gli splendidi scenari naturali esistenti nell' immenso
territorio della loro azienda.

giovedì 27 agosto 2009

Umberto Nobile

Nel Maggio scorso è stata commemorata a San Pietroburgo la storica impresa del dirigibile "Italia" comandata dal generale Umberto Nobile. A organizzare l'evento è stato l'Istituto Italiano di Cultura di San Pietroburgo insieme ad altre istituzioni e organizzazioni tra cui la rivista di Studi Storici " Il Saggio" presieduta dal direttore editoriale Giuseppe Barra.
Presenti alla commemorazione, svoltasi a bordo dello storico rompighiaccio Krasin che ha avuto un importante ruolo nelle prime operazioni di salvataggio del Generale Umberto Nobile e dei superstiti dello schianto sulla banchisa di ghiaccio del dirigibile Italia, il Prof. Schettino Nobile nipote del Generale e la nipote Silvana Fiorito.
La rivista Il Saggio, promotrice dell'evento, ha pubblicato nel numero di Luglio scorso due articoli che riportano la cronaca delle manifestazioni che si sono svolte a San Pietroburgo.
La storia di Umberto Nobile, della sua impresa al polo nord e della tragedia che si è abbattuta sulla spedizione in cui sono morti ben diciassette persone tra membri della spedizione e soccorritori è conosciuta, come sono conosciuti i dubbi che hanno accompagnato la vita di Umberto Nobile, in bilico tra l'essere considerato dal popolo e dai suoi cantori un eroe o un essere spregevole. Su di lui sono stati scritti libri e documenti tutti rintracciabili sul web per chi volesse documentarsi in proposito.
Certo è che a poche persone sono state riservate gli stessi encomi e le espressioni di gloria di quelle che, nel 1926, alla fine trionfale della prima spedizione in dirigibile, furono attribuite al Generale Nobile, ad Eboli, al ritorno della sua impresa.
Essendo figlio di ebolitani, dopo le altrettanto trionfali accoglienze a Roma e Napoli, il Generale venne invitato ad Eboli dove fu accolto la domenica del 15 Agosto 1926. Era stato il sindaco dell'epoca Vincenzo Carusi Abbamonte ad avvertire la cittadinanza del suo arrivo e, ad attenderlo con la città tutta erano gli zii, i cugini i compagni di scuola e tanti cartelli con su scritte poesie dettate dal poeta Felice Cuomo.

Te stringe nel palpito
d'innumeri cuori,
Con tutti i suoi fiori,
La nostra Città.
D'amore, di giubilo
Nel fervido coro,
Ti cinge l'alloro
Che eterno vivrà
I cartelli in suo onore per tutto il vialone che conduceva alla piazza recavano le seguenti parole di elogio: Eboli riabbraccia e incorona il Figlio trionfatore./Onore a te, Eroe dei Cieli Polari./Date cantici e serti al Conquistatore dell'Artica./Gloria a te,nobile figlio di Eboli./Inni e ghirlande al Colombo dei cieli./Viva il Magnifico Argonauta d'Italia./Fiori ed allori ad Umberto Nobile.Popolo di Eboli, inneggia al tuo figlio glorioso.
Dopo aver posto una corona d'alloro sul monumento dei cadutil gli venne consegnata una targa d'oro eseguita dal prof. Tomaselli che recava incise queste parole: A UMBERTO NOBILE- EBOLI MADRE-ROMA X APRILE-TELLER XIV MAGGIO MCMXXVI
Più tardi, giunti nel palazzo comunale, il Sindaco consegnò al Generale Nobile una pergamena commerativa con su scritto paroledettate da Felice Cuomo che così recitano:
Solo pochi anni dopo la carriera del Generale Nobile, che sembrava destinata a durare splendida in eterno, fu inesorabilmente distrutta.

venerdì 7 novembre 2008

Ugolino in Sardegna

È opinione diffusa attribuire la costruzione del castello di Acquafredda al celebre nobile pisano Ugolino Della Gherardesca.
Il conte Ugolino della Gherardesca nacque a Pisa, nel 1220 circa e morì a Pisa nel marzo 1289. Si sposò con Elena, figlia naturale frutto dell’unione di re Enzo con una certa Frascha.
In virtù della sua parentela con il re Enzo, nel 1252, Ugolino della Gherardesca ottenne dal suocero il vicariato della Sardegna di cui il suocero era Re per averne ottenuto la nomina dal padre. Re Enzo, infatti, discendeva dalla casata degli Hohenstaufen essendo figlio naturale di Federico II di Svevia e di Adelaide di Urslinghen che si conobbero nel castello di Hagenau, una delle residenze preferite dall'imperatore del Sacro Romano Impero e Re di Sicilia. Il suo vero nome, Heinrich, venne abbreviato in Heinz (lat. Encius, italianizzato in Enzio o, in maniera scorretta, in Enzo. (Notizie tratte da varie fonti)



Enzo fu re del Regno di Torres dal 1241 al 1272. Molto bello e intelligente, sposò per interessi dinastici Adelasia, vedova del giudice di Torres e Gallura, e fu nominato re di Sardegna dal padre. Il papa Gregorio IX, che aveva la giurisdizione dell'Isola, scomunicò per questa nomina il padre Federico II e Re Enzo che gli si oppose. Ebbe come soprannome il Falconetto perchè amava, come il padre, la falconeria, ma aveva anche numerosi interessi culturali. (Notizie tratte da varie fonti)
Nel 1252 quindi, essendo vicario del re Enzo, Ugolino della Gherardesca dovrebbe trovarsi in Sardegna nelle terre a lui assegnate dal suocero nel periodo in cui inizia la costruzione del Castello di Acquafredda. Nel frattempo è verosimile che lui avesse la residenza nel castello di San Guantino ad Iglesias, (ora chiamato Salvaterra).
Non dispongo di notizie sulla permanenza di Ugolino della Gherardesca in Sardegna ( se vi è stata) negli anni che vanno orientativamente dal 1257 al 1270 circa, quando lo ritroviamo in Pisa nelle tormentate vicende che lo portarono alla orribile morte.

giovedì 6 novembre 2008

Dante e il conte Ugolino

Tutti conoscono la storia terribile di Ugolino della Gherardesca: caduto in disgrazia, il conte fu imprigionato con i suoi figli a Pisa nella torre dei Gualani poi chiamata "Torre della Fame" e la chiave della prigione gettata in Arno. I prigionieri morirono per inedia lentamente e tra atroci sofferenze, e prima di morire i figli di Ugolino, secondo l’interpretazione prevalente, lo pregarono di cibarsi delle loro carni. Ugolino muore nel 1288.
La terribile fine del conte deve la sua fama e la sua diffusione esclusivamente a Dante Alighieri, che lo collocò nell'ultimo cerchio dell'Inferno (a metà tra i canti XXXII e XXXIII), tra i traditori.
La terrificante e raccapricciante conclusione fece passare alla storia Ugolino come il conte cannibale. Nel poema, Ugolino afferma che più che il dolor poté il digiuno, e il conte, ormai impazzito e viene spesso rappresentato con le dita delle mani strappate a morsi ("ambo le man per lo dolor mi morsi", Inf XXXIII, 57) per la costernazione.

Studi più recenti, tuttavia, hanno portato gli studiosi a escludere quel tremendo epilogo. Nel 2002 l'antropologo Francesco Mallegni trovò quelli che vennero considerati come i resti di Ugolino e dei suoi familiari. Le analisi del DNA delle ossa evidenziarono che si trattava di cinque individui di tre generazioni della stessa famiglia (padre, figli e nipoti). Il paleodietologo che seguì la ricerca non crede ci sia stato alcun cannibalismo: le analisi delle costole del presunto scheletro di Ugolino hanno rivelato tracce di magnesio ma non di zinco, che sarebbe invece evidente nel caso in cui avesse consumato carne nelle settimane prima del decesso. Risulterebbe abbastanza evidente, invece, l'inedia di cui hanno sofferto le vittime prima della morte: Ugolino era un uomo molto anziano ed era quasi senza denti quando fu imprigionato, il che rende ancor più improbabile che sia sopravvissuto agli altri e abbia potuto cibarsene in cattività.

lunedì 22 settembre 2008

La fine ingloriosa di Gerolamo Pitzolo

L'uomo non doveva essere certamente uno stinco di santo se già in gioventù ebbe dei trascorsi che dimostrarono il suo carattere prepotente. A Torino, dove studiava per aver ottenuto una borsa di studio (non per meriti ma perchè rampollo di una nobile schiatta) uccise in duello un uomo e per tale motivo fu costretto a rientrare precipitosamente a Cagliari dove però fu arrestato e imprigionato. Il padre ne chiese la grazia. Si laureò in leggi e nella carriera forense evidenziò oltre la capacità anche il carattere irascibile, intollerante verso chi gli si opponeva, che il Manno, nella sua storia della Sardegna, giudicò “ vanaglorioso, di natura boriosa ed altera”. Nel 1773, per aver offeso un giudice fu condannato a 15 giorni di reclusione nel castello di San Michele. Nel 1781 ottenne un’altra condanna a 9 giorni di arresti domiciliari per aver reagito violentemente ad una convocazione da parte di Giovanni Maria Angioy che, ritenendosi offeso, si rivolse al magistrato ottenendo soddisfazione.
Nonostante tutto fu convocato per difendere Cagliari dal pericolo dell’invasione francese del 1973 e il vicerè Balbiano lo nominò colonnello delle truppe. Si distinse per aver evitato lo sbarco d’alcune scialuppe francesi durante i bombardamenti della città che a più riprese tentarono di sbarcare a Calamosca. Pur nell’incertezza di come andarono realmente le vicissitudini della battaglia contro i francesi al Pitzolo furono tributati grandi onori. La poesia popolare cantò le sue gesta e si propose che il suo nome fosse scritto in litteras de oro d’ogni historia. Dal vicerè Balbiano, nonostante questi fosse stato autorevolmente sollecitato, non ricevette però nessuna ricompensa e nemmeno lodi. Re Vittorio Amedeo III volle sì premiare i sudditi che gli avevano salvato il trono, ma nelle ricompense furono favoriti i piemontesi e non i sardi che invece avevano veramente combattuto. Offesi i sardi convocarono gli stamenti (ecclesiastico, militare e reale) e stilarono delle richieste divise in 5 punti da inviare al Re.
Il 17 agosto partì una delegazione composta di 6 persone tra cui Gerolamo Pitzolo La delegazione fu fatta attendere 3 mesi prima di essere ricevuta dal re, mentre a Cagliari il malcontento aumentava, la media borghesia preparava la sommossa e nel nord dell'isola si scatenavano le lotte antifeudali. Dai primi mesi del 1794 si cominciò a preparare la ribellione.
Quando Girolamo Pitzolo rientrò da Torino fu acclamato dai cagliaritani come padre della patria, nonostante le risposte del re non fossero state soddisfacenti. Il 28 Aprile 1794, il malcontento degenerò in aperta ribellione. Furono i giorni de s’acciappa (la caccia ai piemontesi ancora in città) celebrati nella ricorrenza Sa die de sa Sardigna. Furono catturati tutti i 514 funzionari continentali, incluso il vicerè Vincenzo Balbiano, e furono cacciati via dall'isola. L'esempio fu seguito da altre città e la rivolta si propagò per tutta la Sardegna. Seguì un lungo periodo di turbolenze politiche in cui il malcontento generale divenne una mina vagante per tutti.
Gerolamo Pitzolo fu nominato da Vittorio Amedeo III di Savoia intendente generale e questo fatto contribuì a suscitare nel popolo invidia e odio. I suoi oppositori congiurarono contro di lui e sobillarono il popolo. Furono messe in giro voci calunniose come quella di essersi impossessato dell’oro abbandonato dai francesi in ritirata. Il 6 luglio 1975 cadde nelle mani del popolo che, sembra per opera di un certo Dais, di professione barbiere, lo uccise, mentre veniva accompagnato alla torre di San Pancrazio per esservi imprigionato. Fu poi massacrato dalla folla, spogliato e abbandonato sul selciato.

sabato 20 settembre 2008

Gerolamo Pitzolo



Il territorio di S. Elia ed il suo colle sono fortemente connessi con la storia della Sardegna. In un mare che già s’increspava per il vento di levante, nella livida mattina del 22 gennaio 1793 apparvero improvvisamente alle vedette cagliaritane appostate nell’alto del colle di Sant’Elia le navi francesi che intendevano invadere la Sardegna. Furono subito allestite le difese e approntati i manipoli di soldati che avrebbero dovuto evitare lo sbarco delle truppe francesi. A capo di loro furono posti alcuni nobili e coraggiosi uomini tra cui spiccò il nome di Gerolamo Pitzolo. La resistenza dei cagliaritani tenne in scacco la flotta che bombardava la città, ma i francesi riuscirono a sbarcare nella zona di Quartu e del margine rosso e le truppe marciarono in direzione di Cagliari tentando così l’accerchiamento delle milizie sarde. Ma il tentativo fallì e le truppe francesi furono respinte e costrette a bivaccare sulla spiaggia in preda alle intemperie fino a quando non riuscirono a risalire sulle loro navi. In questa occasione fu accreditata al Pitzolo la vittoria sulle truppe francesi e lui stesso fu applaudito come salvatore della patria. Ma fu vera gloria? Il dubbio è legittimo in quanto gli storici affermano che fu invece qualche casualità, pare l’abbaiare di un cane, a provocare nelle inesperte truppe francesi episodi grotteschi come quello in cui gli invasori, confusi e allarmati, finirono per spararsi fra loro credendo di combattere il nemico, prima di fuggire in preda al terrore lasciando sul terreno, oltre ai cadaveri, tutte le loro vettovaglie.

giovedì 21 agosto 2008

Castiadas: l'altra faccia della medaglia


Quello che oggi appare come un paradiso regalato da Dio a questa parte della Sardegna in realtà ha avuto origine da una situazione infernale. Migliaia di carcerati bonificarono il territorio, perfetto per il loro confino, “preparando il terreno” per le famiglie di coloni agricoli che si stabilirono nelle terre adiacenti il carcere. La lontananza dai centri urbani, la difficoltà per raggiungerli e la presenza continua della malaria, scoraggiava ogni volontà di fuga. La loro vita quotidiana era la seguente: la sveglia avveniva alle 6 del mattino. Il lavoro, sia nei campi all'aperto che nelle officine, si fermava dalle 12 alle 13 per il pranzo e poi proseguiva sino alle 17. Alle 18,30 i secondini eseguivano la conta e la chiusura dei dormitori, ed infine alle 19 veniva ordinato il silenzio. Le celle, ampie solo pochi metri quadrati, ospitavano un gran numero di detenuti. Il cibo veniva fatto passare attraverso piccole aperture poste sul soffitto o sui muri. Le infrazioni al regolamento venivano punite in modo medievale, il ritardo nell'obbedire, i guasti provocati al materiale in consegna, le grida, i canti, il rifiuto di sottomettersi alle punizioni e i tentativi di evasione provocavano la segregazione a pane e acqua. I casi di disobbedienza più gravi venivano puniti con la Cella Oscura a pane e acqua con ferri o camicia di forza oppure con la cella di isolamento per sei mesi. Coloro che non resistevano, andavano invariabilmente verso il suicidio o la pazzia”.
Non tutti i forzati subivano lo stesso trattamento. I più fortunati erano coloro che potevano lavorare nei campi, all’aria aperta, per i meno fortunati, e per i più indisciplinati, la vita carceraria era più dura. Ma anche all'aperto i gruppi di detenuti lavoravano nelle zone malsane, infestate dalle temibili zanzare apportatrici della malaria. Dimoravano presso baracche di legno lunghe 5 metri e larghe 2 e mezzo dotate di fitte reti metalliche alle finestre per impedire il passaggio dei terribili insetti. I condannati, indossavano una giubba rossa, il cappuccio di tela rigata di bianco e blu, quando lavoravano mettevano i guanti al solo dito pollice. Il cappuccio era simile a quello dei confratelli della misericordia, al posto dei due fori dinnanzi agli occhi aveva cucita una fitta rete metallica poco più di un decimetro quadrato.
Il personale manifestava poco entusiasmo, sia per il lavoro scarsamente retribuito che per il rischio che si correva a causa della zona infetta.
Così raccontano le cronache dei giornali dell'epoca. Un cronista dell'Unione Sarda Felice Senes riuscì ad intervistare alcuni detenuti.
Un detenuto napoletano di 40 anni, in carcere a Castiadas, condannato a 21 anni di reclusione per omicidio, racconta: Per 36 mesi ho vissuto in una cella, la cui larghezza era di tre piedi e la lunghezza di cinque piedi. Da un pertugio praticato nell'alto della soffitta, ricevevo quotidianamente il mio cibo. E' una pena di tortura, è un sepolcro di vivi: la legge consacrando fra le sue punizioni la segregazione cellulare, calpesta la natura dell'uomo…….eravamo sette napoletani, condannati nello stesso carcere alla segregazione cellulare, sei morirono, io solo ho resistito a quella indicibile tortura. Ora spero nella grazia… ".
(Foto e brani estratti dai siti: http://www.castiadasonline.it/ e: Viaggi al confine del mondo di Gianmarco Murru in http://www.marenostrum.it/, ai quali si rimanda per notizie più approfondite. )

martedì 22 luglio 2008

Alagon Marchesi di Villasor

In merito al castello Sevillar e al post pubblicato ieri, mi sono imbattuto in un interessante sito http://www.villasor.net/ condotto da Antonella ( unico dato in mio possesso) che riporto di seguito. Inoltre è interessante e piena di notizie la discussione che ne è seguita e che può leggersi cliccando prima sul blog di cui sopra e poi sulla categoria: castello.

Scritto da Antonella
Il castello Siviller, forse (o senza forse ) è il più importante monumento nel nostro paese, ma poco valorizzato, per così dire….Quanti di noi per esempio né conoscono la sua origine?Quanti di noi, aldilà delle notizie apprese per “sentito dire” conoscono la storia di questo monumento, dei suoi proprietari, dei suoi abitanti?Per esempio quanti di noi sanno che presso il museo della chiesa di Bonaria a Cagliari, più precisamente nella seconda ala del museo, sono custoditi e si possono osservare, protetti dentro una teca di vetro, i corpi mummificati della nobile famiglia Alagon, Marchesi di Villasor. Essi morirono di peste nel 1605 e furono sepolti ai piedi del santuario di Bonaria, di cui probabilmente erano dei benefattori. Vennero sepolti nella roccia calcarea del colle, e il carbonato di calcio prodotto all’interno della sepoltura ne permise la mummificazione spontanea. Nessuno dalla Spagna è più venuto a reclamare le salme ed esse sono rimaste un ricordo della peste del 1605.Le due salme in alto
sono quelle di una donna e di un bambino, mentre quella sola in basso è di un uomo.


Ma gli ALAGON chi sono? Questi che seguono sono alcuni cenni storici, vediamoli insieme.Gli Alagon anche detti d’Alagona o Alagon, furono una famiglia molto potente del XIV secolo. Famiglia di origine aragonese, il cognome infatti, deriverebbe da Alagon, una terra d’ Aragona. Il capostipite della famiglia sarebbe stato Artal, signore del castello di Alvona nel 1133.Salvatore fù il capostipite del ramo di Villasor. Coinvolto col fratello Leonardo nelle lotte contro Giovanni II re d’Aragona fu arrestato, come ribelle, nel 1478 per poi essere dichiarato innocente nel 1493. Dal matrimonio di Salvatore Alagon e Isabella Besora nacquero 6 figli, tra cui Giacomo (o Jaime ) Alagon cui sua madre, oramai vedova, fecce ampia donazione dei suoi beni. Il 30 settembre 1537, per gratificare i servizi offerti al re da suo figlio Biagio, gli fu concesso il titolo di conte, erigendo così il feudo di Villasor a contea. Nel 1544 fu’ incaricato con successo dal re, di proteggere le coste della Sardegna dalle continue scorrazzerei degli ottomani capitanati dal famoso Barbarossa. A Biagio Alagon succedette nei feudi, Giacomo 3° conte di Villasor, per i servizi offerti al re Filippo II, ricevete l’investimento di cavaliere dell’ordine di Santiago nel 1567. Con Diploma del 19 novembre 1594, Filippo II elevò la contea di Villasor a marchesato, ma Giacomo Alagon morì prima che gli fosse notificato il privilegio. Martino Alagon morì giovanissimo all’età di 28 circa, (la data e l’età non sono certe) lasciando come erede dei feudi il suo giovanissimo figlio Ilario (o Ilariano ) nato a Cagliari nel 1601. Anche quest’ ultimo ricevete l’investimento del feudo di Cabu Abbas.Nel 1634 o nel 1641, anche qui le date sono incerte, successe a Ilario il figlio, Biagio Alagon, 4° marchese di Villasor.Questi si distinse nella carriera militare, nel 1640 in occasione della rivolta catalana, armò a proprie spese una compagnia di fanti composta di tremila uomini e, unitala alle compagnie regie contribuì a sedare la rivolta. Tanta generosità e coraggio gli aprirono la strada agli onori e ai gradi militari maggiori. Biagio Alagon fondò nel suo marchesato i villaggi di Villa Hermosa (oggi Vallermosa) e di Villarios.L’ importanza e il prestigio raggiunti da Biagio Alagon e dalla sua Famiglia sono provati dal fatto che nel 1645, gli stamenti del regno di Sardegna chiesero al re di Spagna Filippo IV, la concessione della grandezza del titolo di Duca per il marchese di Villasor. Anche Biagio Alagon morì prima che fossero presi provvedimenti. Gli stamenti rinnovarono la richiesta nel 1655 a favore di Araldo, ma gli Alagon non riuscirono ad ottenere l’ambito titolo. Araldo, ultimo maschio della famiglia Alagon, al pari dei suoi predecessori ottenne dal re, onori e privilegi ma, al contrario degli altri membri della sua famiglia egli non fu’ fedele alla corona, parteggiò per l’arciduca Carlo d’Austria contro il re Filippo V e, congiurò per dare la Sardegna in mano agli austriaci. Nel 1708 la Sardegna fu occupata dagli austriaci e vicerè fu nominato Fernando Menes de Sylva a cui, andò in sposa Emanuela Alagon figlia d’Araldo.

sabato 8 marzo 2008

1793 - I francesi sbarcano a Quartu

Immaginiamo Cagliari negli ultimi dieci anni del 1700. La nobiltà isolana si affolla attorno al vicerè e agli organi preposti all’amministrazione della Sardegna. Arroccati nel Castello, si contendono privilegi e benefici tessendo tele che arrechino sostanziali tornaconti ai propri casati. Intanto si vocifera che Vittorio Amedeo III, confermando il suo disinteresse per la Sardegna, ha offerto l'Isola all'Austria di Giuseppe II in cambio di adeguati compensi in Lombardia.
Tra questo marasma di atti, informazioni e prospettive diverse, arriva la notizia che la Francia intende occupare militarmente l'Isola.
Siamo negli ultimi dieci anni del 1700 ed effettivamente la Francia vuole occupare l’isola e farne una base per il rafforzamento del suo sistema strategico e per la difesa dei suoi interessi commerciali nel Mediterraneo, e diffondervi i principi rivoluzionari di libertà e di uguaglianza fra i Sardi, da secoli soggetti al dispotismo, e l’abolizione dei privilegi ecclesiastici e feudali.
Ma il popolo, come sempre, è tenuto nell’ignoranza e non sa nulla dei propositi della Francia. Si può allora capire lo sgomento, la meraviglia, la paura che attanaglia il cuore dei cagliaritani, quando, svegliatisi il mattino del 21 dicembre 1792, scorgono al largo del golfo di Cagliari, tante navi da guerra quante mai si erano viste.
Il Consiglio Provvisorio Esecutivo Francese aveva, infatti, affidato il comando della spedizione in terra sarda congiuntamente al contrammiraglio Truguet, comandante della flotta del Mediterraneo e al generale Anselme, i quali si apprestavano a sbarcare in Sardegna con le buone o con le cattive. In quel giorno il vento soffia fortissimo ed il mare ribolle. I Cagliaritani incuranti del tempo osservano incuriositi i movimenti di quelle navi di cui non conoscono gli obbiettivi e fanno mille ipotesi e supposizioni fino a quando vedono le navi alzare le vele e allontanarsi, in mezzo ai flutti violenti del mare, verso altri lidi fino a scomparire del tutto.
Allora tirano un sospiro di sollievo che però dura poco. I francesi si sono ritirati ma solo a causa del maltempo. La notizia diventa pubblica e l’allarme scatta: l’invasione nemica è prossima. Abituati da sempre ad obbedire agli ordini, si preoccupano di allestire le fortificazioni così come viene loro chiesto. Lo fanno, però, male, con molta lentezza e confusione e anche con una certa rabbia. Tra l’altro corre voce che le artiglierie leggere montate sui carri non possono essere dislocate nelle postazioni perché non si trovano i cavalli necessari per il trasporto. Il motivo di questa penuria di cavalli infervora gli animi dei popolani: la ferratura dei cavalli è riservata in esclusiva ad un unico artigiano piemontese. Tutti i fabbri sardi sono esclusi da questa mansione. Alla popolazione impaurita e confusa non resta che portare in solenne processione per le vie della Città, il simulacro di S.Efisio, protettore di Cagliari.
Passano una decina di giorni e incominciano a giungere notizie sempre più allarmanti: agli ordini del contrammiraglio La Touche-Tréville i francesi sono sbarcati in Carloforte e si apprestano ad occupare S.Antioco, da dove possono giungere a Cagliari in meno di due giorni di marcia. Le notizie sono confuse. C’è chi parla di accoglimento dei francesi con simpatia da parte dei carlofortini, sarebbe stato innalzato "l’albero della libertà" e un tale Filippo Buonarroti avrebbe infiammato gli animi con discorsi di libertà, uguaglianza e giustizia. Altri parlano di scontri sanguinosi. L’attesa, diventata spasmodica, dura poco.
Il 23 gennaio La flotta francese getta le ancore nella rada di Cagliari con uno spiegamento di forze veramente poderoso. Il comandante Truguet, prima di procedere all'attacco, intima la resa mandando avanti una scialuppa parlamentare, che porta a bordo, oltre che un certo numero di soldati armati, anche Filippo Buonarroti, che contava di diffondere anche quì un proclama inneggiante alla libertà e all'uguaglianza, così come aveva fatto a Carloforte. Ma un gruppo di miliziani appostati nel molo, con una nutrita scarica di moschetteria costringe i parlamentari a riprendere precipitosamente il largo.
L’intenzione dei francesi, però, non muta e il 27 gennaio inizia il primo bombardamento navale di Cagliari.
Il piano di difesa predisposto dal vicerè e dallo stamento militare dell’isola è predisposto nella considerazione che due soli sono i luoghi dove l'attacco francese può essere tentato con qualche probabilità di riuscita: la piana detta di Gliuc, all'altezza del Lazzaretto, ed il tratto del litorale di Quartu la “ Torre degli Spagnoli ” presso il ruscello di Foxi. Il campo di Gliuc è presidiato da Gerolamo Pitzolo, con un migliaio di miliziani, mentre lungo il litorale di Quartu sono dislocati i dragoni del barone St.Amour con alcune compagnie di miliziani di fanteria ed a cavallo.

Il 14 febbraio è il giorno cruciale. Dopo due settimane d’attesa del momento più propizio e delle condizioni ottimali del mare, le navi da guerra si schierarono davanti a Quartu e sottopongono a un fuoco infernale le posizioni tenute dal barone St.Amour il quale non solo non fa nulla per impedire lo sbarco, ma retrocede lasciando libere le truppe francesi di sbarcare senza alcun ostacolo. Circa 4.000 uomini si riversano sulla terraferma e incominciano ad avanzare verso Cagliari inoltrandosi nelle campagne di Quartu. Si comportano come le truppe d’occupazione di tutto il mondo in questi frangenti bellici, depredando e razziando ogni cosa di valore che trovano lungo il loro cammino. In questo frangente è facile immaginare lo scempio commesso alla chiesetta di San Forzorio dal gruppo che per primo se ne impadronisce. È trasformata in bivacco e le sue sacre testimonianze dileggiate e offese.





L’avanzata verso Cagliari continua. Intanto a Gliuc, nonostante un furioso bombardamento dal mare, Pitzolo tiene ferme le sue milizie sulle posizioni stabilite e impedisce che i reparti francesi tocchino terra. Ma la città subisce un ennesimo intensissimo bombardamento e solo in quel giorno cadono non meno di 12.000 bombe.
L'avanzata francese da Quartu verso Cagliari prosegue tutto il giorno, contrastata da sporadici attacchi dei miliziani sardi e s’interrompe solo con il calar delle tenebre, quando le brigate si accampano presso le saline per passare la notte, attenti a possibili sorprese.

A Cagliari la situazione è frenetica. Le notizie che giungono in città dal campo di Quartu sono disastrose e nel Consiglio di guerra convocato immediatamente il giorno 15, il Vicerè e qualche elemento meditano una resa incondizionata. Dopo accese discussioni è impartito l'ordine ai comandanti Pitzolo e St.Amour di contrattaccare, ma nel frattempo, e durante l’assenza dei loro comandanti, le truppe di fanteria e di cavalleria sono prese d'infilata dal fuoco radente delle navi nemiche, sbandano ulteriormente, e non è possibile eseguire il contrattacco.
Il comandante Pitzolo rincuora animosamente le sue truppe e predispone l'attacco frontale per il giorno successivo, facendo nel frattempo appiattare in agguato i suoi uomini nei vicini vigneti e andando egli stesso in ricognizione notturna.
Ma nel cuore della notte succede qualche cosa che gli storici non riescono a spiegare esaurientemente. Forse per l'allarme dato dalla vicinanza delle pattuglie sarde, forse per l'imprudenza di qualche sentinella francese (lo storico Manno riferisce che si trattò dell'abbaiare di un cane), all'improvviso echeggia un colpo di fucile; altri colpi fanno immediatamente seguito ed in breve la fucileria diviene generale. I reparti francesi, credendo di essere attaccati e non conoscendo la dislocazione dei vicini, si scambiano nell'oscurità micidiali scariche.
Le truppe sarde non si rendono conto di quanto succede e non passano al contrattacco. Non si muovono neppure quando i Francesi, abbandonate armi e bagagli, si riversano sulla spiaggia e chiedono di essere reimbarcati. Ma le condizioni del mare sono improvvisamente diventate proibitive, sicché per quattro giorni oltre 4.000 soldati rimangono sul litorale, esposti all'inclemenza del tempo, senza protezione e senza rifornimenti, in preda al terrore e circondati dai nemici.
Cessato il maltempo, il 20 febbraio tutto il corpo di sbarco può essere ricondotto a bordo. Qualche giorno dopo la flotta, assai malconcia per le avarie, lascia le acque di Cagliari.






Quì a sinistra: una pagina tratta dalla storia a fumetti della Sardegna "Sardinia Story", di Cesare Casula, con illustrazioni di Ruggero Soru. Edizioni Unione sarda, pagg. 330, fuori commercio