Una poesia di Attilio Maccioni, Cavalieri di
vento, ha dato il nome al suo decimo volume di poesie pubblicato postumo
nel 1996:
Cavalieri di vento
Noi isolani
cavalieri
di vento
tutte
le dominazioni
ci
hanno spezzato i denti
che
cosa ne sappiamo
della
libertà?
Ci
hanno costretto il cervello dentro una scatola
romani
e pisani e aragonesi
sono
venuti dai più lontani paesi
a
sedersi all’ombra delle querce
fenici
e saraceni
e
un loro grido ci faceva tremare
anche
se non avevamo la malaria.
Noi
isolani
cavalieri
di vento.
La
nostra terra era un letto
per
le tribù marocchine:
le
donne non furono mai bambine
in
quest'isola di conquista.
Sulla
cima del Bellavista
si
raccoglievano e all’Orthobene
in mezzo ai monti della Barbagia
le
genti disperate in odio al mare.
Noi
isolani
cavalieri
di vento.
Inutile
battersi con la bufera:
ci
hanno spezzato i denti
tutte
le dominazioni:
hanno
succhiato tutto hanno lasciato
le
ossa spolpate pietre
nuraghi
alberi storti
conchiglie
sopra i monti
deserte
fonti
e
la veste nuziale
di
broccati damaschi e filigrane
barbarie
orientale
gettata
ad ornamento
delle
spose bambine
dalle
tribù beduine.
È
rimasta la terra una romantica
terra
fuori dal tempo
terra
di poca gente
e
di poche faccende.
È
rimasta la terra
e
noi di tanti semi estremo frutto
a
rifarla di vento
cavalieri.
È
rimasta la terra
ansia
di libertà vergine sangue
che
alle deserte vene
torna
come alla zolla
torna
il seme e alla fonte
l'acqua
dimenticata.
E
l‘isola groviglio
di
serpi e pettirossi
di
rovi e di violette
cerca
col suo tormento
la
libertà.
(Attilio Maccioni)
Sulle
invasioni barbaresche in Sardegna si è detto e scritto molto ma le fonti sono
scarse.
Credo di aver letto solo una minima parte di tutto
ciò che si è scritto in proposito, e quello che ho trovato mi ha lasciato l’amaro
in bocca. Le incursioni hanno determinato sempre o quasi
sempre la sconfitta dei poveri abitanti soprattutto delle coste ( i nostri
antichi progenitori) che si sono visti depredare dei loro beni più preziosi non
escluse le loro donne e i loro bambini. Poche volte ho trovato la ribellione dei sardi e i combattimenti invece della loro fuga, e poche
volte ho trovato il nome di qualche eroe
nostrano che sia uscito vincitore dalle battaglie contro gli invasori. Poche
volte, insomma, ho visto spezzare i denti al nemico come lui ha fatto con noi, per
dirla con Attilio Maccioni.
Armata Saracena |
Gli
storici, come il professor Francesco Casula che ci ha intrattenuto con una
conferenza sull’argomento alla
biblioteca di Flumini il giorno 26 Luglio 2012, dicono che certamente questi atti di eroismo e di ribellione strenua ci sono
stati ( anzi Casula precisa di averne catalogato almeno una cinquantina, tra cui
spicca la figura di Bernardino Puliga di Siniscola) e che la mancanza della conoscenza dipende dal fatto che la storia la fanno i vincitori e noi non siano stati tra quelli. Ma anche perché, se
la Sardegna non avesse opposto una strenua resistenza, sarebbe stata colonizzata
con tutte le conseguenze del caso per l'intero mondo di allora. Purtroppo non ho trovato molto altro e allora
volentieri mi rifugio nella fantasia accettando anche ciò che scrivono
autori che storici non sono.
Così
apprendo che una flottiglia
tunisina, con settecento uomini la notte del 5 giugno del 1806 sbarca nelle spiagge di Orosei. La
popolazione riesce a mettere in fuga i nemici: ottanta e più cadono fra morti
e feriti, a fronte di un solo sardo morto e un ferito. ( Questo è il fatto
storico e la fonte è Pietro Martini.)
E di questo terribile episodio vi è riscontro anche
nella leggenda narrata da Michele Carta nella sua Guida turistica di Orosei
pubblicata a cura del gruppo Folk di Orosei dalla Pubblisar di Cagliari nel
1988 .
Tommaso Moiolu e i saraceni
L'alba del 6 giugno 1806 sta per portare un nuovo lutto all paese ancora
assonnato. una piccola flotta di velieri saraceni approda sulla spiaggia di
Avalé, e subito una folta schiera dl oltre 700 uomini assetati di sangue e avidi
di bottino s'incamminano silenziosi verso le prime case del piccolo centro
rurale.
Nel rione periferico di S. Salvatore abitava Tommaso Moiolu, uomo forte e
coraggioso il quale, destato dall’insolito brusio provocato dai primi
barbareschi sopraggiunti e insospettito dall’incomprensibile parlottio, si armò
di un lungo spiedo e con ardire aprì d’improvviso l'uscio, infilzando il primo
dei nemici che gli si avventò contro e avvertendo del grave pericolo i suoi
compaesani con terribili urla. Un certo Antonio Gozza, uscito incautamente a
rendersi conto della situazione venne fulminato sull’uscio da una scarica di
trombone.
Orosei, torre della vecchia prigione |
Ma intanto la sorpresa del|’assalto
era sfumata: l'intero villaggio s’era destato e già si organizzava una valida
difesa. Donne e bambini venivano portati al sicuro nella torre di S. Antonio,
da dove gli archibugi iniziavano a mietere le prime vittime nelle file
avversarie, ormai sgomente per l'inaspettata reazione. Intanto intervenivano
anche i cavalieri miliziani e nel volgere di poche ore l'assalto si tramuto,
per le orde barbaresche, in una catastrofica rotta disseminata di circa ottanta
morti, cui si aggiunse un gran numero di feriti e di prigionieri.
Pochi giorni dopo lo sbarco, una
fanciulla del villaggio, ormai tranquilla perché gli invasori erano fuggiti,
morti o prigionieri, andava a prendere l‘acqua da una fontana coperta, molto
antica, stando ai gradini consunti, situata in una località amena prossima a
Osala. Credette di sognare udendo un gemito che proveniva dalla fonte. Vi era
un giovane, riverso proprio sugli ultimi gradini. La donna lo soccorse come
meglio poté e, a gran fatica lo condusse in una caverna ampia e ben dissimulata
da cespugli. Con le cure e il cibo, il giovane corsaro guarì, ma solo a cenni
poté ringraziare la sua salvatrice, offrendole un ciondolo che teneva appeso al
collo con una catenina d’oro. La fanciulla l'aperse con mani tremanti e dentro
vi trovò la medaglia di N.S. della Mercede. Si sentì morire: anche lei ne aveva
una uguale, nella stessa custodia, c cosi gli altri tre figli. Era dunque il fratello
che lei aveva potuto salvare, il caro fratellino portato via dai Mori all’età
di 4 anni.
Tra i Turchi catturati, uno fu concesso come schiavo a Marianna Gozza,
figlia dell'unico tra i sardi caduto nella battaglia, Antonio Gozza: quegli si
sdebitò con lei servendola con fedeltà e bonificandole il terreno che trasformò
in un giardino.
Un altro prigioniero, affidato ad una famigli di ricchi proprietari
terrieri, si rivelò un esperto contadino. Mustafà possedeva il dono di
riconoscere il momento più adatto per la semina: ai quattro angoli delle tanche
disponeva, conficcandoli nel terreno, dei rudimentali pioli confezionati
direttamente da lui, che ogni tanto andava a controllare, annusandoli e
riponendoli nel terreno se l’odore non era di suo gradimento. Gli altri
agricoltori aravano e seminavano i loro campi, ma lui sempre lì ad annusare e
riporre i suoi pioli. Quando finalmente questi emanavano il profumo voluto, in
un sol giorno, anche facendo uso di parecchi gioghi, arava e seminava tutti i
campi del padrone. Mai un’annata sfavorevole: le messi erano sempre abbondanti
e il padrone si abituò, dimenticando la
sua origine, a trattarlo come il suo migliore amico.