martedì 31 luglio 2012

Le invasioni barbaresche


Una poesia di Attilio Maccioni, Cavalieri di vento, ha dato il nome al suo decimo volume di poesie pubblicato postumo nel  1996:

Cavalieri di vento


Noi isolani
cavalieri di vento
tutte le dominazioni
ci hanno spezzato i denti
che cosa ne sappiamo
della libertà?

Ci hanno costretto il cervello dentro una scatola
romani e pisani e aragonesi
sono venuti dai più lontani paesi
a sedersi all’ombra delle querce
fenici e saraceni
e un loro grido ci faceva tremare
anche se non avevamo la malaria.

Noi isolani
cavalieri di vento.
La nostra terra era un letto
per le tribù marocchine:
le donne non furono mai bambine
in quest'isola di conquista.
Sulla cima del Bellavista
si raccoglievano e all’Orthobene
 in mezzo ai monti della Barbagia
le genti disperate in odio al mare.
Noi isolani
cavalieri di vento.

Inutile battersi con la bufera:
ci hanno spezzato i denti
tutte le dominazioni:
hanno succhiato tutto hanno lasciato
le ossa spolpate pietre
nuraghi alberi storti
conchiglie sopra i monti
deserte fonti
e la veste nuziale
di broccati damaschi e filigrane
barbarie orientale
gettata ad ornamento
delle spose bambine
dalle tribù beduine.

È rimasta la terra una romantica
terra fuori dal tempo
terra di poca gente
e di poche faccende.

È rimasta la terra
e noi di tanti semi estremo frutto
a rifarla di  vento
cavalieri.

È rimasta la terra
ansia di libertà vergine sangue
che alle deserte vene
torna come alla zolla
torna il seme e alla fonte
l'acqua dimenticata.

E l‘isola groviglio
di serpi e pettirossi
di rovi e di violette
cerca col suo tormento
la libertà.
(Attilio Maccioni)





Sulle invasioni barbaresche in Sardegna si è detto e scritto molto ma le fonti sono scarse.
Credo di aver letto solo una minima parte di tutto ciò che si è scritto in proposito, e quello che ho trovato mi ha lasciato l’amaro in bocca. Le incursioni hanno determinato sempre o quasi sempre la sconfitta dei poveri abitanti soprattutto delle coste ( i nostri antichi progenitori) che si sono visti depredare dei loro beni più preziosi non escluse le loro donne e i loro bambini. Poche volte ho trovato la ribellione dei sardi e i combattimenti invece della loro fuga,  e poche volte ho trovato il  nome di qualche eroe nostrano che sia uscito vincitore dalle battaglie contro gli invasori. Poche volte, insomma, ho visto spezzare i denti al nemico come lui ha fatto con noi, per dirla con Attilio Maccioni.
Armata Saracena
Gli storici, come il professor Francesco Casula che ci ha intrattenuto con una conferenza sull’argomento  alla biblioteca di Flumini il giorno 26 Luglio 2012, dicono che certamente questi atti di eroismo e di ribellione strenua ci sono stati ( anzi Casula precisa di averne catalogato almeno una cinquantina, tra cui spicca la figura di Bernardino Puliga di Siniscola)  e che la mancanza della conoscenza dipende dal fatto che la storia la fanno i vincitori e noi non siano stati tra quelli. Ma anche perché, se la Sardegna non avesse opposto una strenua resistenza, sarebbe stata colonizzata con tutte le conseguenze del caso per l'intero mondo di allora.  Purtroppo non ho trovato molto altro e allora volentieri mi rifugio nella fantasia  accettando anche ciò che scrivono autori che storici non sono.
Così apprendo che una flottiglia tunisina, con settecento uomini la notte del 5 giugno del 1806 sbarca nelle spiagge di Orosei. La popolazione riesce a mettere in fuga i nemici: ottanta e più cadono fra morti e feriti, a fronte di un solo sardo morto e un ferito. ( Questo è il fatto storico e la fonte è Pietro Martini.)
E di questo terribile episodio vi è riscontro anche nella leggenda narrata da Michele Carta nella sua Guida turistica di Orosei pubblicata a cura del gruppo Folk di Orosei dalla Pubblisar di Cagliari nel 1988 .

Tommaso Moiolu e i saraceni
L'alba del 6 giugno 1806 sta per portare un nuovo lutto all paese ancora assonnato. una piccola flotta di velieri saraceni approda sulla spiaggia di Avalé, e subito una folta schiera dl oltre 700 uomini assetati di sangue e avidi di bottino s'incamminano silenziosi verso le prime case del piccolo centro rurale.
Nel rione periferico di S. Salvatore abitava Tommaso Moiolu, uomo forte e coraggioso il quale, destato dall’insolito brusio provocato dai primi barbareschi sopraggiunti e insospettito dall’incomprensibile parlottio, si armò di un lungo spiedo e con ardire aprì d’improvviso l'uscio, infilzando il primo dei nemici che gli si avventò contro e avvertendo del grave pericolo i suoi compaesani con terribili urla. Un certo Antonio Gozza, uscito incautamente a rendersi conto della situazione venne fulminato sull’uscio da una scarica di trombone.
Orosei, torre della vecchia prigione
 Ma intanto la sorpresa del|’assalto era sfumata: l'intero villaggio s’era destato e già si organizzava una valida difesa. Donne e bambini venivano portati al sicuro nella torre di S. Antonio, da dove gli archibugi iniziavano a mietere le prime vittime nelle file avversarie, ormai sgomente per l'inaspettata reazione. Intanto intervenivano anche i cavalieri miliziani e nel volgere di poche ore l'assalto si tramuto, per le orde barbaresche, in una catastrofica rotta disseminata di circa ottanta morti, cui si aggiunse un gran numero di feriti e di prigionieri.
  Pochi giorni dopo lo sbarco, una fanciulla del villaggio, ormai tranquilla perché gli invasori erano fuggiti, morti o prigionieri, andava a prendere l‘acqua da una fontana coperta, molto antica, stando ai gradini consunti, situata in una località amena prossima a Osala. Credette di sognare udendo un gemito che proveniva dalla fonte. Vi era un giovane, riverso proprio sugli ultimi gradini. La donna lo soccorse come meglio poté e, a gran fatica lo condusse in una caverna ampia e ben dissimulata da cespugli. Con le cure e il cibo, il giovane corsaro guarì, ma solo a cenni poté ringraziare la sua salvatrice, offrendole un ciondolo che teneva appeso al collo con una catenina d’oro. La fanciulla l'aperse con mani tremanti e dentro vi trovò la medaglia di N.S. della Mercede. Si sentì morire: anche lei ne aveva una uguale, nella stessa custodia, c cosi gli altri tre figli. Era dunque il fratello che lei aveva potuto salvare, il caro fratellino portato via dai Mori all’età di 4 anni.
Tra i Turchi catturati, uno fu concesso come schiavo a Marianna Gozza, figlia dell'unico tra i sardi caduto nella battaglia, Antonio Gozza: quegli si sdebitò con lei servendola con fedeltà e bonificandole il terreno che trasformò in un giardino.
Un altro prigioniero, affidato ad una famigli di ricchi proprietari terrieri, si rivelò un esperto contadino. Mustafà possedeva il dono di riconoscere il momento più adatto per la semina: ai quattro angoli delle tanche disponeva, conficcandoli nel terreno, dei rudimentali pioli confezionati direttamente da lui, che ogni tanto andava a controllare, annusandoli e riponendoli nel terreno se l’odore non era di suo gradimento. Gli altri agricoltori aravano e seminavano i loro campi, ma lui sempre lì ad annusare e riporre i suoi pioli. Quando finalmente questi emanavano il profumo voluto, in un sol giorno, anche facendo uso di parecchi gioghi, arava e seminava tutti i campi del padrone. Mai un’annata sfavorevole: le messi erano sempre abbondanti e il  padrone si abituò, dimenticando la sua origine, a trattarlo come il suo migliore amico.


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