giovedì 8 novembre 2007

QUESTIONE D’ONORE

Arrivò il vento e spazzò tutta la collina con un impeto tale che gli alberi toccavano terra e l’erba era piegata a lambire il suolo formando un tappeto verde che neanche nei migliori prati dove si giocava a golf.
Paullicu avvolse la sciarpa intorno al viso e rialzò il bavero calandosi il cappello in testa fino alle orecchie in modo che non volasse via insieme alle foglie secche che turbinavano nell’aria, mentre il mantello gli svolazzava schiaffeggiando di continuo i gambali stretti fino alle ginocchia. Urlando a squarciagola, utilizzava il bastone nodoso per minacciare le pecore e indirizzarle verso la parete di monte, a ridosso del quale avrebbero avuto più quiete.
L’ululato del vento era simile al logorio interno che si portava dentro. Suo cognato lo aveva offeso a morte e lui non lo digeriva. Non lo poteva digerire. La sua donna, la tonda pisita, era stata considerata dal presuntuoso cognato alla stregua di una baldracca. “ Vai a farti fottere” le aveva detto con superbia, quando lei si era frapposta tra i due contendenti per il possesso della tanca di tziu Antiogu.
“ Cosa c’entri tu? Questi sono ragionamenti che a te non devono interessare. Cose da uomini, sono!”
Lei aveva risposto e gli aveva tenuto testa. “ Non è così. Paullicu ha più diritto di te a quella terra. Tu puoi andare a cercartene un’altra. Hai i mezzi per farlo e non sei costretto a stare in montagna anche quando fa freddo o nevica.”.
“ I mezzi che ho li ho procurati da solo. E anche Paullicu, con un po’ più di carattere e di voglia avrebbe potuto farlo. Ma la verità è che lui ha sempre preferito andarsene su in montagna, a pascolare le sue pecore e a stemperare le canne!”
Tirato in ballo Paullicu gli rispose: “ Non è così. Io non ho cavalli come te, e posso pascolare le mie pecore solo lassù. Ora però, con quella tanca non ho più bisogno di andarmene in montagna. È abbastanza grande da permettere alle pecore di pascolare liberamente e mangiare tutta l’erba che vogliono. Poi è in collina, e salire e scendere dai pendii fa irrobustire gambe e muscoli. Inoltre, il fiume che scorre lì nei pressi fornisce in abbondanza acqua per la loro sete estiva. Dunque quella terra la voglio!”
“ Un conto è volere, un conto è potere!”
“ Quella terra ci è necessaria.” Aveva aggiunto la pisita quasi lacrimosa. Io non voglio più che Paullicu stia via per tanto tempo. Se non capisci queste cose, non capisci niente!”
Proprio allora suo cognato aveva detto quella frase che gli bruciava ancora dentro come un tizzone ardente.

Ora Paullicu accarezzava con la ruvida mano il manico d’osso del coltello, dalla lama appuntita come uno spillo ed il filo tagliente come un rasoio, e già vedeva l’azione. Il volto di Igino che diventava pallido e gli occhi strabuzzare quasi a chiedere perdono. “Scusami. Non volevo offenderti. Prenditi pure tutta la terra che vuoi, così potrai fare felice quella stronza della tua donna!” e sorrideva, mentre diceva quelle maledette parole che insultavano ancora di più. Gli rivoltava l’anima immaginare lo sguardo ironico, nel rivolgergli di rimando quelle parole che sembravano divertirlo come uno scimmiotto. Il sangue si ribellava a quelle idee che si accavallavano in testa e non lo facevano ragionare. La verità era che, di sicuro, Igino non aveva nessuna intenzione di chiedere scusa. Si considerava l’erede legittimo di Tziu Antiogu solamente perché una volta, in una festa di tosatura, mentre erano tutti ubriachi, lo ricordava bene, lo tziu, gli aveva promesso che, alla sua morte, quella terra sarebbe andata a lui. L’aveva detto alla presenza di tanti testimoni, era vero, ma erano tutti ubriachi fradici. Lo potevano dichiarare tutti. Quella sera avevano bevuto attingendo a pieni boccali dalla botte sul carro a buoi e l’avevano scolata quasi tutta. Addirittura ricordava che qualcuno stava per cadere nelle braci del fuoco, acceso per cuocere gli agnelli ed i porcetti. Ed ora che lo tziu era morto si vantava di avere avuto da lui il testamento! Ma che testamento e testamento! Quella era una porcheria. E lui non lo avrebbe tollerato. Non si poteva dare via un terreno come quello in una notte in cui uno non sapeva nemmeno quello che diceva. Ma non l’avrebbe passata liscia. Se volevano prenderlo in giro avrebbero visto tutti di che pasta era fatto Paullicu. Anche se se n’andava a pascolare in montagna, mica perché rimaneva isolato nelle montagne che gli altri potevano fare tutto quello che volevano. Nossignore, non potevano e gliel’avrebbe dimostrato.
Con il pollice accarezzava il filo della leppa.

Nella notte scurissima perché non vi era la luna ad illuminare il tancato, Paullicu superò con un salto lo steccato che divideva il viottolo campestre dalla tenuta del cognato. Entrò dalla parte dove era coltivata a fave che poi il prossimo anno sarebbe stato a grano. Di tanto in tanto vi erano i mandorli a spezzare la distesa del campo e, in fondo, la casa. Era una casa grande e aveva il granaio e la porcilaia dietro. Aveva due stalle, una per i buoi, perché suo cognato era bovaro, e una per i cavalli. Dentro casa c’era sua sorella e solo lei poteva mettere pace fra i due. Ma oramai era troppo tardi, quello che era stato detto non poteva essere più ritirato e chiamava vendetta.
Camminò per un breve tratto e gli parve di sentire qualche cosa dietro di lui. Si girò di scatto e vide l’ombra di un gatto sparire frettolosa nel buio intenso. Sapeva che intorno alla casa circolavano liberamente i cani, ma lo conoscevano perché, quando tornava dalla montagna, andava sempre a stare dalla sorella e da suo cognato, e i cani riconoscevano l’odore. Allora era bello. Si stava bene in compagnia della sorella e di suo cognato. Erano in simpatia e non aveva niente da invidiare, anche se Igino possedeva certamente più di quello che aveva lui. Era vero, però era anche vero che il cognato aveva più anni di lui e adesso anche più esigenze perché doveva provvedere al piccolo che sarebbe nato da qui a due o tre mesi. E poi chi lo diceva che i buoi valevano più delle pecore? Bisognava vedere quante n’aveva e fare la conta. Se proprio si voleva trovare una differenza, questa era sola nel fatto che lui se n’andava in montagna per sei mesi l’anno e per sei mesi viveva da solo con le sue pecore e basta. Quella era la vera differenza che poi non era nemmeno una brutta cosa. Aveva anche i suoi lati buoni. Quando era lassù, il cervello ragionava, infatti, molto meglio perché aveva più tempo per pensare. E anche i ragionamenti che faceva in montagna, solo e isolato dal resto del mondo, filavano lisci come l’olio. E quelli erano rigidi e immutabili dai tempi dei tempi. Secondo i canoni tradizionali, l’offesa andava ricambiata con un’altra offesa o lavata con il sangue. Non ci potevano essere alternative. Era come se il contrario fosse che la luna non facesse più luce o che il vento non piegasse le chiome degli alberi o che l’acqua non scorresse verso la valle.
Questo accadeva quando era in montagna. Non qui, invece. Qui i pensieri, chissà perché, si aggrovigliavano come radici di lentischio perché erano sempre in lotta con quelli degli altri e allora bisognava fare e disfare, e alla fine non si capiva più nulla. Come adesso. Che gli sembrava una pazzia quello che stava andando a fare. Ora che nella piana la notte era piombata nel silenzio e si sentiva solamente, in lontananza, lo sfrecciare delle automobili lungo la strada statale, ora il pensiero, da limpido che era, diveniva contorto. “ Io non sono ancora sposato con la pisita. È la mia donna, è vero, e mi piace anche. Altrochè se mi piace! È molle in tutte le parti, e quando la tocco mi fa venire i brividi. E poi è liscia. Come la mammella della pecora. Ma ancora non sono sposato, e quindi l’offesa è meno grave. Forse dovrei dire ad Igino che chieda scusa. Se lui lo fa io posso rinunciare ad ammazzarlo. Ma se non lo fa? Se si mette a ridere? Se mi prende in giro? Allora sì che devo ammazzarlo!”
Però, a mano a mano che procedeva nel buio e nel silenzio, l’odio stava scomparendo. Il furore che l’aveva incattivito, quando aveva sentito quelle parole dette dal cognato alla sua donna l’avevano ferito nell’orgoglio forse perché formulate di fronte a lei. Gli era sembrato di essere stato mortificato, aggredito insolentemente senza che ce ne fosse il bisogno. Però forse il bisogno c’era. Perché si era intromessa lei? Cosa c’entrava? Se la tanca di Tziu Antiogu doveva andare ad uno dei due, non era certo lei a doverlo dire, erano proprio cose da uomini, come aveva detto suo cognato. Era tra loro due che dovevano sbrigarsela e forse avrebbero trovato l’accordo. Bastava che lui si tenesse la terra e gli permettesse di pascolare le sue greggi e avrebbero risolto il litigio.
Vuoi vedere che la colpa è della pisita? Vuoi vedere che il silenzio e la notte mi fanno ragionare bene come dovevo fare anche prima?
Ma il riso e lo scherno del cognato, dove lo metteva? Perché c’era stato, non lo poteva dimenticare. Quando aveva detto a lei “ Vai a farti fottere!” aveva sorriso. Forse pensava che era proprio quello che avevano fatto pochi momenti prima. E allora il sorriso non era più di scherno, ma di uno che sapeva. Era come se volesse dire “ Fai le cose che sai, mentre le altre lasciale a noi!” Se veramente le cose erano andate così non poteva rimproverare nulla al cognato. Aveva solo detto la verità e non aveva voluto offendere nessuno. Solo che lui l’aveva presa male perché la pisita si era risentita e aveva risposto. E non avrebbe dovuto. Se se ne stava zitta, lui non l’avrebbe offesa e non sarebbe successo nulla. Ma oramai era successo e non si poteva cancellare. E così continuava ad avvicinarsi alla casa tenendo sempre in pugno la leppa, che era la sua vendetta.
Ma continuava anche a ragionare. Perché, a pensarci bene, non aveva assolutamente minacciato il cognato. Non aveva aperto bocca e aveva ingoiato l’offesa senza proferire parola. Se lo avesse fatto, se avesse minacciato Igino di fargliela pagare, o cose del genere, avrebbe poi dovuto mantenere la sfida e presentare il conto. Così no! Non era tenuto a niente. Non c’era nessuno a costringerlo.
I ragionamenti andavano in quella direzione, e adesso lui oscillava tra le due possibilità. Tra poco avrebbe avuto la conferma o meno. Dipendeva da come reagiva il cognato. Vedendolo arrivare a quell’ora, Igino avrebbe capito subito perché era venuto e si sarebbe accorto delle sue intenzioni. E allora la spiegazione sarebbe arrivata immediatamente. E il destino avrebbe agito per lui. Si sarebbe adeguato alla reazione del cognato e poi il cielo avrebbe deciso.
Intanto era arrivato nei pressi della casa. Un cane gli andò incontro e scodinzolò nel riconoscerlo. L’altro, vecchio e appisolato sulla soglia della porta, lasciò al più giovane le incombenze di fargli le mosse d’averlo riconosciuto.

Bussò con la mano piena colpendo con forza la porta. Passarono solo pochi minuti e la sorella apparve sulla soglia dell’uscio. Si accorse immediatamente dell’aspetto torvo e minaccioso del fratello e si spaventò.
“Come mai vieni qua a quest’ora della notte, mentre dovresti essere a dormire?”. La voce era tremula. Aveva osservato gli occhi di Paullicu e in essi vi aveva scorto la voglia di offendere.
Lo fece entrare un po’ timidamente, ma sapeva già che tra poco sarebbe esplosa l’ira. Non poteva stabilire l’intensità e le conseguenze ma poteva cercare di limitare l’impatto negativo.
“ Vuoi che ti prepari un caffé?”
“ Niente voglio! Solo parlare con tuo marito. Che questa notte ha da ascoltarmi!”
“ Mamma mia, non ti ho mai veduto in queste condizioni. Cosa ti ha fatto?”
“ Tu digli di venire e poi lasciaci soli che noi dobbiamo discutere”
La sorella lasciò la stanza e subito dopo entrò il marito Igino.
“ E cosa ti porta qui a questa ora. Qualche pecora morta o ammalata?”
“ Sai bene perché sono qui. Non posso certo dimenticare quello che hai detto stamattina. Sono qui per chiederti di rimangiarti le tue parole, e se non vuoi farlo…”
Non terminò la frase perché Igino glielo impedì. “ Me lo dovevo immaginare che non me l’avresti passata liscia. Ma guarda che io ci ho pensato. Credo che potremo facilmente trovare un’accomodamento!”
“ Ma cosa dici. Soluzioni non ce ne sono. Scusa mi devi chiedere e anche alla Pisita. Perché ci hai offesi. E se non lo fai…” Si alzò in piedi e levò dalla tasca la leppa facendo scattare il bottone in modo che la lama fuoriuscisse del tutto dal manico d’osso con uno scatto rapido.
“ Ehi! Ti ha dato di volta il cervello?” Non vorrai che mio figlio nasca senza conoscermi. Lo sai che tra poco meno di due mesi tua sorella partorirà. Tu farai da padrino. L’abbiamo deciso proprio ieri. E abbiamo anche deciso che il terreno di Tziu Antiogu lo daremo a te e alla tua ragazza come regalo di nozze, se vi sposerete. Metti via quell’arnese e siediti. Ehi, tu, portaci una bottiglia e due bicchieri che Paullicu ha sete. ”
Paullicu fu come tramortito da quei discorsi. “ Non va così.” Disse un po’ stordito. “ La legge non è questa. L’onore si lava con il sangue. Non si possono offendere le persone e poi invitarle a bere a casa. Non riesco a capacitarmi di cosa sta succedendo. Mi sembra quasi che il mondo sia capovolto.”.
“ Cosa vuoi che ti sta succedendo? Te lo dico io! È che stare da solo per troppo tempo ti fa dimenticare le cose vere. Bevi adesso e pensa ai giorni di festa che ti aspettano: la nascita di mio figlio, tuo figlioccio, e, tra non molto tempo, il tuo matrimonio. Non è forse meglio che litigare fra noi?”
Paullicu prese la bottiglia e si versò un bicchiere colmo fino all’orlo e lo trangugiò tutto di un fiato. Stette fermo a rimuginare fra se come poteva uscire da quella situazione. Un uomo armato che se ne va via dalla casa del nemico senza aver avuto soddisfazione e senza aver usato l’arma non era degno di chiamarsi uomo. Era un uomo inutile, senza nerbo, come quelli che stanno tutto il giorno a far niente nelle bettole del paese, a bere birra e spettegolare come comari, che t’importunano, magari ridendo alle tue spalle, ma se appena fai un solo gesto di minaccia, o gli lanci uno sguardo accigliato o dici una parola dura, si azzittiscono immediatamente o scappano spaventate come lepri stanate.
Lui, invece, non era di quelli. Che cosa avrebbero detto gli altri, e la pisita? Cosa sei andato a fare a casa d’Igino? Cosa fa un balente di fronte al nemico, colla doppietta spianata, se non spara? Allora cosa è, una pasta frolla o che altro?
Suo cognato, però, non aveva riso come uno scimmiotto. Era vero, invece, che Igino offrendogli da bere si scusava delle parole offensive dette alla pisita, e questo fatto bastava a cancellare la vergogna, ma se ora gli regalava anche la terra, dopo i conti non tornavano lo stesso perché, ad essere pari, un regalo doveva essere ricambiato con un altro regalo.
Bisognava decidere subito. E a lui la decisione gli arrivò attraverso la mano da cui spuntava la lama.
Richiuse la leppa e la porse ad Igino. “ Tieni, è tua. E’ per la terra. Adesso possiamo dirci uguali e nessuno potrà dire che sono venuto da te col coltello e me lo sono riportato indietro senza usarlo!.”
Si versò un altro bicchiere e lo alzò in aria con gesto di brindisi.
paolo maccioni

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