mercoledì 7 novembre 2007

Festa della tosatura







FESTA DELLA TOSATURA





Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
(G. Leopardi)





I pascoli selvatici della montagna erano un ricordo. Le pecore avevano irrobustito i muscoli nel lento e continuo vagare alla ricerca della pastura adatta, ora, però, dovevano accontentarsi dell’erbetta che spuntava nei prati della pianura, attorno ai mandorli che già esplodevano di bianco, tra gli asfodeli, i cespugli d’erica e le siepi di fichidindia. Il caldo incominciava a farsi sentire e opprimeva i loro corpi, costringendole alla ricerca cumulativa dell’ombra, ma, tra poco, avrebbero ottenuto qualche appagamento alla loro sete di fresco.
Già da qualche settimana fervevano i preparativi. Nell’aria si sentiva l’eccitazione del periodo. Gli uomini si preparavano a rasare, con le giuste forbici, il vello delle bestie e a selezionarlo per l’utilizzo. Le donne, nelle loro case, erano affaccendate nei preparativi della festa. Dalle grandi corbe la farina era passata al setaccio e poi impastata con l’acqua e messa a lievitare per farne il pane. Non solo. La pasta era stesa in grandi sfoglie e, a parte, erano preparati gli impasti che avrebbero riempito l’involucro; amalgama di mandorle e zucchero, mosto d’uva misto a nocciole e miele con sanguinacci. I forni a legna cuocevano ininterrottamente quelle allettanti ghiottonerie che sarebbero state gustate di lì a qualche giorno.
Paulliccu era stato l’ultimo a rientrare a valle. Dopo aver rinchiuso le pecore nel recinto aveva abbracciato Conchittu, l’asino con il quale divideva il suo tancato, al quale avevano accudito, durante l’assenza, i figli del bovaro suo cognato. Lui era considerato ricco: aveva una mandria di buoi e stava sempre in pianura, inoltre possedeva un cavallo e poteva permettersi di controllare le bestie dall’alto, a cavalcioni della sella, dormiva tutti i giorni sotto un tetto, dove trovava la moglie Bianca, sorella di Paulliccu, che lo accudiva come lui attendeva alle pecore. Un po’ lo invidiava, ma qualche volta, quando nei monti la solitudine perfetta e i silenzi erano tanto rarefatti da non distinguersi dal rumore della morte, egli, scrutando il cielo alla ricerca delle stelle preferite, sentiva un certo languore che lo avvolgeva e lo inteneriva strappandogli lacrime di commozione. I campanacci delle pecore sembravano una musica in lontananza, come se trombe e arpe d’angeli suonassero un concerto. In quei momenti si annientava nella natura che lo circondava; gli sembrava di farne parte come se, insieme, fossero un tutt’uno. Il suo sangue scorreva nelle vene, con la stessa intensità dei ruscelli che sgorgavano dalle pareti della roccia. Era felice. Quelle sensazioni, si diceva, solo lui poteva provarle, non certo suo cognato. Per questo si era attardato più degli altri a rientrare giù nella piana.
Conchittu gli diede un morso di benvenuto e, subito dopo, apparvero la sorella Bianca e suo cognato il bovaro. Si abbracciarono con entusiasmo, e Bianca lo invitò a seguirla per andare a casa loro. Lo svestirono e gli prepararono l’acqua calda. La sera prima Bianca era andata più volte a riempire le brocche al fiume in previsione di quel bisogno. Gli prepararono abiti freschi, e lo rifocillarono raccontandogli, nel frattempo, tutte le novità del paese. L’indomani avrebbe rivisto anche tutti gli altri pastori che, intanto, si apprestavano alla tosatura; qualcuno anzi aveva già incominciato. Lui lo avrebbe fatto all’indomani e, quindi, il giorno precedente la festa.
“ Ditemi di Sa Pisita.” Era il nome confidenziale che egli dava alla sua promessa.
“ Un fiore candido.”. Rispose Bianca. Non ha fatto altro che aspettare il tuo ritorno. Alla festa ci sarà anche lei. Non vede l’ora di ritrovarti. Ma, mi raccomando…non esagerare che verrà con suo fratello!”.
Paulliccu si mise a ridere pregustando l’incontro con la sua amata.

La tosatura delle pecore fu una gran fatica, ma alla fine fu perfetta. Dopo il riposo, gli uomini andarono a raccogliere legna e prepararono i fuochi all’aperto. Le donne avevano sistemato nello spiazzo panche e scanni. Una botte di vino, portata con il carro a buoi, fu collocata sotto l’albero di fichi. Alcuni, intanto, preparavano gli spiedi e gli stecchi appuntiti da infilare nel petto degli agnelli e dei porchetti da arrostire alla brace. Una volta infilzati li avrebbero sistemati ritti, non troppo vicino ma neanche molto lontano dal fuoco, in modo che potessero riscaldarsi lentamente. I bambini si divertivano intorno alle fiamme, mentre gli uomini incominciavano a bere, scherzando tra loro. Quelli che erano rimasti in paese, prendevano in giro chi era rientrato dalla transumanza, facendo insinuazioni sulla virtù delle donne che avevano lasciato a casa e sulla loro fedeltà coniugale. Fingevano di arrabbiarsi tra loro e si accaloravano nel confrontarsi e nello sfidarsi reciprocamente come se lo scherzo ridanciano fosse verità. Le donne, sentendo quelle storie inventate gridavano allo scandalo e imploravano la misericordia divina, nascondendo il volto negli scialli leggeri. Al riparo d’essi ridevano, però, di gusto, mentre con occhi maliziosi osservavano il comportamento dei loro uomini. Erano tutti affaccendati. C’era chi tagliava il formaggio, chi lavava le verdure. Qualcuno puliva con la saggina lo spiazzo in cui si sarebbero adunati a mangiare. Qualche altro riempiva d’acqua le brocche o spillava il vino dalla botte.
Fino a quando i porchetti e gli agnelli furono cotti. Allora sì che iniziò veramente la festa.
Quel giorno, Paullicu fece l’amore con la sua tonda pisita. Mangiò come un porco e s’ingozzò di culurgionis. I pastori, insieme alle loro donne, ballarono il ballo tondo al suono di fisarmonica, launeddas e battimani. Poi fu la volta dei cori e poi ancora quella delle canzoni e il classico bo bo re. Conch’ è conillu ad un certo punto crollò a terra tra risate e schiamazzi, e per poco non andò a finire sul grande fuoco acceso dalla sera prima. Il vino rosso della tanca di tziu Ziulianu era scorso a fiumi e i volti di tutti erano diventati paonazzi. “Al fiume al fiume”, gridarono le donne. “Bevete l’acqua che vino già n’avete bevuto anche troppo!”. Ma pè de molenti aveva continuato a bere a garganella con gli occhi che sembravano uscirgli dalle orbite; soprattutto quando gli fecero lo scherzo. Gli avevano messo nell’ultimo piatto di culurgionis, al posto del ripieno di ricotta e spinaci, lana e farina. Li aveva messi in bocca tutti interi, due per volta fino a quando si era accorto dell’impasto. Divenne paonazzo; dovette incollarsi alla bottiglia del vino, come se il liquido potesse sciogliere il blocco che ostruiva il gargarozzo. Vomitò alcune sorsate di liquido e il viso da rosso divenne pallido. Rincarò la dose del vino convinto che il malloppo sarebbe sceso giù più velocemente, ma sentì enfiarsi le budella come membrane di un otre. Gli venne un mal di pancia che lo costrinse a scappare sulla riva del fiume, per cercare di espellere quel peso che non sopportava. “ Bevi l’olio!” Gli gridavano gli amici sghignazzando e torcendosi dalle risate. Lui era quasi certo che a giocargli quello scherzo fosse stato Anzelinu pisci malu. Avrebbe indagato e l’anno prossimo l’avrebbe ripagato con eguale moneta, ma per intanto gli avevano rovinato la festa.
Era quasi l’alba, quando tutto finì. Paulliccu si sentì stanco. Aveva bevuto molto e la testa gli girava incessantemente, vuota ma pesante. Erano andati via quasi tutti, chi ciondoloni e canticchiando, chi, con le gambe traballanti, facendosi sorreggere. La Pisita, anche lei, si era incamminata insieme a suo fratello, dopo averlo salutato con uno sguardo complice. Qualcuno si era messo a dormire, sdraiato per terra accanto al fuoco ormai incenerito.
Prese il solito sentiero per andare verso il mare. Attraversò il salto delle vacche, dove si radunavano solitamente le bestie di compare Antiocu, poi voltò sulla sinistra, verso la capanna che lo attendeva immersa nell’oscurità. Luceva in cielo una piccola fetta di luna, e Sirio, splendente e nitida che sembrava Natale. Si sentiva in lontananza il fruscio leggero dell’onda che sbatteva sulla sabbia fine. Era stata una bella festa e per un anno intero l’avrebbe ricordata. Lo colse, però, uno struggimento improvviso, tutto quel chiasso l’aveva frastornato e lui, abituato a parlare solo con le pecore, con le stelle e con se stesso, aveva la mente che non riusciva più a connettere i pensieri. Rimpianse la solitudine dei monti. Si avvicinò al suo asino che, in piedi, sembrava guardarlo meravigliato, venire avanti ondeggiando. “ Dimmi burricchu meu, spiegami perché ero più felice ieri. La festa è stata bella e io mi sono soddisfatto. E allora che cosa c’è?” Ma l’asino non replicò nemmeno con un raglio. Non poteva rispondere che l’attesa di qualcosa che molto si desidera è, sovente, assai più allettante del suo appagamento.

paolo maccioni



Paulliccu: diminutivo di Paolo
Conchittu: testina
Tancato: appezzamento di terra
Sa Pisita: la gatta
Culurgionis: agnolotti con ripieno di formaggio
Launeddas: strumento musicale a canne
bo bo re: modo di cantare gutturale sardo
Conch’ è conillu: testa di coniglio
tziu Ziulianu: zio Giuliano
pè de molenti: piede d’asino
Anzelinu pisci malu: Angelino pesce cattivo
burricchu meu: asino mio

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