giovedì 12 febbraio 2015

Attilio Maccioni:ha scritto di Francesco Ciusa

Ciusa si sentì vinto come tutti i sardi in Sardegna
L’informatore del lunedì 26 febbraio 1951
Questo articolo è tratto dal libro "Passeggiate di Attilio Maccioni" raccolta di una serie di articoli del medico poeta oroseino, in fase di preparazione per la pubblicazione.

Francesco Ciusa in una foto del  i907 (F. Altea: F.Ciusa - Ilisso)
Lo conobbi ch'era già famoso ed era ancora frenetica tutta la tua attività creativa. Alto, bello, simpatico, effervescente. Lavorava al gruppo « L'ucciso », quello dove pecore spaurite riportano sul dorso pietoso il morto abbandonato come una croce.
        Ricordo la casa rossa sulla, strada di Pirri. Come s'entrava da un cancello c'era un pergolato che, per non averlo mai visto alla luce del giorno, non so se fosse di viti o di glicini. Quand'egli levò gli occhi su di me che lo vedevo per la prima volta sbozzava la testa d'una pecora dalla grande composizione, “Lampu - esclamò - ocros de baronìesu matta 'e vava ” e rise a gola piena. Dirò per amore di chiarezza che la frase (occhi di baroniese mangiatore di fave) si riferiva alla qualità degli occhi nostri marini che si ostinano a trascinare nelle generazioni bagliori arabi e alla consuetudine di noi abitanti della pianura di cibarci più volentieri di frutti della terra che non di carni al sangue come avviene per gli uomini della montagna che inseguono le capre per i greppi selvatici.
      Ci offrì da bere - vino nero - in ciotole di terra cotta ch'egli già cominciava a lavorare preannunciando una industrializzazione della propria arte che gli avrebbe dovuto dare la ricchezza. Era, in quel periodo, tutto pieno di sogni e di baldanza. Lo sguardo sicuro era quello di chi comanda al mondo.
L'ucciso (F. Altea: F.Ciusa - Ilisso)

       Poi partì con «L'ucciso». Durante la sua assenza gli morì il figlio minore Gian Giacomo. Dopo non sapeva perdonarsi di avere folleggiato per Venezia con gli amici mentre il lutto gravava sulla sua casa. E me lo diceva con accoramento fraterno perché non ci era stato difficile simpatizzare fino ad una affettuosa amicizia cui non noceva la differenza d'età tan­to unico era il sentire ed il sognare. Altre cose mi disse poi, della sua vita e dei suoi sogni. Tutte cose dette con la voce di intonatura sarcastica, nel dialetto nuorese frantumato da esclamazioni, interiezioni e risi, in quel dialetto nuorese ch'egli non aveva mai abbandonato né inquinato. Passarono gli anni, scomparve dal libro della fama, poi dalle pagine della notorietà; fu un piccolo insegnante in Oristano, raggiunse Cagliari, ne fuggì durante la guerra. Vi tornò, solo, ancora una volta senza casa, senza famiglia, senza amici, strano, angustiato, perduto, vinto.
         Poi seppi ch'era morto e la sua immagine è lì davanti a me non velata dall'ombra funerea, non turbata dalla bruttura del male, fresca, triste ma sorridente, delusa e bramosa dì lotta, umana.
Sposina di Nuoro (F. Altea: F.Ciusa - Ilisso)

         Troppo facile e comodo sarebbe comporre un necrologio e usare la formula classica dei necrofori. Anno e data di nascita e di morte, opere e fatti, lodi. Troppo facile e abusato lodare a gola spiegata mentre ancora ci si stringe il cuore per la memoria recente di un velo di silenzio, d'indifferenza, di inumano gelo che s'era disteso sull'artista. Troppo semplice ora lodare questa o quella statua, questa o quella attività, questa o quella qualità  d'un  uomo che da molti anni veniva considerato con sufficienza.
Non cadrò in tale errore, amico mio che sei scomparso per una morte lenta, torturante, mortificante, tu che meritavi di essere assunto ai cieli della repubblica ideale folgorato dalla scintilla di Prometeo. 

Mammina che lega la cuffietta (terracotta)
       Voglio invece parlare di te nello stile che ti piaceva. Stile pletorico, orgiastico, corposo e rotondo, sensuale quasi e certamente tattile. Egli era nella parola tutto retorica. Gli piacevano le grandi frasi infarcite di aggettivi. Amava le trine ed i merletti. Sfuggiva gli angoli ed adorava la sinuosità, la morbidezza. Andava in estasi per tutto ciò ch'era ridondante. Ma l'amore per la tua terra era reale. Per questo orpellato di retorica, facile nei modi, esteriore e troppo appariscente, faceva corpo con la sua figura ed egli ne era permeato. Sì che ogni sua figurazione artistica fu solamente in funzione d'elogio o di canto della terra che per lui era ancora quella del Satta e della Deled­da E pareva rimpiangesse quei tempi passati, quei tempi mitici di gente selvatica e buona, di campagne desolate e febbri­cose, di vento, di aquile e di falchi. C'era in lui quell'amara voluttà di parlare della Sardegna, come d'una terra triste, povera e infelice, quell'amara voluttà che, poiché c'è ancora chi la prova, rende gli spiriti fiacchi e le volontà desolatamente fatalistiche. Forse da questo complesso di sardità egli si lasciò travolgere quando irrequieto, turbato, indeciso non riuscì più a convogliare la febbrile attività creativa in forme realizzate e s'isterilì in tentativi strani di  industrializzazione così negata alle sue capacità. Forse si sentì vinto, inchiodato come tutti i sardi in Sardegna alla neghittosità d'una malevolenza e d'un sarcasmo che scoraggiano le anime in cui si insinui un melanconico desiderio di essere compatite. Forse sentì il bel sogno sfuggirgli  dalle mani e fu richiamato alla terra da necessità contingenti più forti d'ogni  volontà. Certo è che la  sua figura d'artista s'era offuscata, ed offuscata tanto  ch'egli stesso se ne avvedeva e se ne sentiva morire. Gli irrequieti moti  della sua figura spirituale non nascondevano a chi lo conosceva l'amaro del suo patimento. Egli sotto il riso proclamato celava il nibbio che gli rodeva il cuore.
La madre dell'ucciso  (F. Altea: F.Ciusa - Ilisso)

       Tante volte ho pensato queste cose quando scherzavo per distrargli i pensieri  ed egli cadeva nella pania e non sapeva che io leggevo dietro la sua fronte alta e chiara come nel più chiaro  dei miei volumi. Leggevo la storia di una inutile ribellione, il rimpianto di ciò che non era  avvenuto, il cruccio per ciò che avrebbe dovuto essere. Vedevo fiamme sopite ridestarsi ed altre sopirsi dopo vivaci attimi; inutili tentativi per ritorni non più possibili. Infine lo tormentava forse negli ultimi anni l'angoscia di essere lontano da Nuoro. Perché voi tutti che mi leggete non sapete che cosa sia Nuoro. Oh, no, non quella cittadina, che tutti conoscete col suo bel corso Garibaldi così garbatamente ottocentesco con i suoi caffè e i suoi gagà. Nuoro, dico, quel grosso paese là in mezzo ai monti d'Oliena e la cuspide di Gonari e l'Orthobene così vicino e selvoso, Non è un luogo comune. E' una realtà. Dall'inferriata che  limita un breve spazio che separa la cattedrale dal tribunale si vede la grande valle che è davvero di vigne foscoliane e di foscoliani uliveti. C'è da star li rapiti come se si fosse sospesi  a mezz'aria in un paesaggio nuovo, in un ambiente nuovo.

Nuoro antica

        Un ambiente del '600, di quel '600 lussurioso e tetro che non rispettava titoli di nobiltà e di santità ed invece i nobili erano tiranni e i religiosi, santi. Così a Nuoro c’è preti che non dimenticano d'essere uomini e ciò li fa simpatici, c'è nobili che son duri, incomprensivi e testardi e ciò li fa anacronistici, c'è donne belle, delle più belle, e uomini che amici sono amici con lo stesso animo che li fa al nemico nemici. C'è un carcere che pare la Bastiglia e fonti dove le donne ci vanno con la brocca. C'è gente che canta per le vie con la chitarra e quella che gavazza nelle bettole. C'è una vita che rispecchia la Sardegna, quella d'ieri. Qui non ci sorprenderebbe il delitto ma nemmeno il miracolo.
Processioni dei misteri (china su carta)

Forse Francesco Ciusa sognava questa terra di scollacciate e umane conventicole dove tra il vino nero e la parola grassoccia filtrava l'ora quasi inavvertibile. Annegata nella grigia uniformità della vita cittadina ogni barbarica vampata d'allucinante colore, egli seguiva con nostalgico desiderio le cavalcate iridescenti, le sagre montane fatte di vino e di carne, quando non si sa più se lodare la fame o la sete ed i pensieri s'ammorbidiscono e si sfumano in una ilare ebrietà color di sole donde scaturisce l'animalesca brama di tutti gli istinti vitali.
Ma tutto era finito. Gli amici s'erano fatti pochi e malcerti. La solitudine lo stringeva fuggitivo rasente ai muri scalcinati della città martoriata e sconvolta, ombra fuori del tempo.
Così morì Francesco Ciusa, ignoto in  vita, già baciato giovane dal bacio più bramato, compianto dopo la scomparsa, spogliato della scorie parassita degli ultimi anni, bello della sua fisica bellezza, puro nell'intelligenza dei suoi sogni, anima e cuore d'artista.


Nessun commento:

Posta un commento