Ciusa si sentì
vinto come tutti i sardi in Sardegna
L’informatore del lunedì 26 febbraio 1951
Questo articolo è tratto dal libro "Passeggiate di Attilio Maccioni" raccolta di una serie di articoli del medico poeta oroseino, in fase di preparazione per la pubblicazione.
Francesco Ciusa in una foto del i907 (F. Altea: F.Ciusa - Ilisso) |
Lo conobbi ch'era già famoso ed
era ancora frenetica tutta la tua attività creativa. Alto, bello, simpatico,
effervescente. Lavorava al gruppo « L'ucciso », quello dove pecore spaurite riportano sul dorso pietoso il morto abbandonato come una croce.
Ricordo la casa rossa sulla, strada di Pirri. Come
s'entrava da un cancello c'era un pergolato che, per non averlo mai visto alla
luce del giorno, non so se fosse di viti o di glicini. Quand'egli levò gli
occhi su di me che lo vedevo per la prima volta sbozzava la testa d'una pecora dalla grande composizione, “Lampu - esclamò - ocros de baronìesu matta 'e vava
” e rise a gola piena. Dirò per amore di chiarezza che
la frase (occhi di baroniese mangiatore di fave) si riferiva alla qualità
degli occhi nostri marini che si ostinano a trascinare nelle generazioni bagliori arabi e alla consuetudine di noi abitanti della pianura di cibarci più volentieri di frutti della terra che non di carni al sangue come avviene per
gli uomini della montagna che inseguono le capre per i greppi selvatici.
Ci offrì da bere - vino nero - in ciotole di terra
cotta ch'egli già cominciava a lavorare preannunciando una industrializzazione della propria arte che gli avrebbe dovuto dare la ricchezza. Era, in quel periodo,
tutto pieno di sogni e di baldanza. Lo sguardo sicuro era quello di chi comanda
al mondo.
L'ucciso (F. Altea: F.Ciusa - Ilisso) |
Poi partì con «L'ucciso». Durante
la sua assenza gli morì il figlio minore Gian Giacomo. Dopo non sapeva
perdonarsi di avere folleggiato per Venezia con gli amici mentre il lutto
gravava sulla sua casa. E me lo diceva con accoramento fraterno perché non ci
era stato difficile simpatizzare fino ad una
affettuosa
amicizia cui non noceva la differenza d'età tanto unico era il sentire ed il sognare. Altre cose mi disse poi,
della sua vita e dei suoi sogni. Tutte cose dette con la voce di intonatura
sarcastica, nel dialetto nuorese frantumato da esclamazioni, interiezioni e
risi, in quel dialetto nuorese ch'egli non aveva mai abbandonato né inquinato.
Passarono gli anni, scomparve dal libro della fama, poi dalle pagine della notorietà; fu un piccolo insegnante in Oristano, raggiunse Cagliari, ne fuggì durante la guerra. Vi tornò, solo, ancora una volta senza casa, senza famiglia,
senza amici, strano, angustiato, perduto, vinto.
Poi seppi ch'era morto e la sua
immagine è lì davanti a me non velata dall'ombra funerea, non turbata dalla
bruttura del male, fresca, triste ma sorridente, delusa e bramosa dì lotta,
umana.
Sposina di Nuoro (F. Altea: F.Ciusa - Ilisso) |
Troppo facile e comodo sarebbe comporre un
necrologio e usare la formula classica dei necrofori. Anno e data di nascita e
di morte, opere e fatti, lodi. Troppo facile e abusato lodare a gola spiegata
mentre ancora ci si stringe il cuore per la memoria recente di un velo di silenzio, d'indifferenza, di inumano gelo che s'era
disteso sull'artista. Troppo semplice ora lodare questa o quella statua,
questa o quella attività, questa o quella qualità d'un
uomo che da molti anni veniva considerato con sufficienza.
Non cadrò in tale errore, amico
mio che sei scomparso per una morte lenta, torturante, mortificante, tu che
meritavi di essere assunto ai cieli della repubblica ideale folgorato dalla
scintilla di Prometeo.
Mammina che lega la cuffietta (terracotta) |
Voglio invece parlare di te nello stile che ti piaceva.
Stile pletorico, orgiastico, corposo e rotondo, sensuale quasi e certamente
tattile. Egli era nella parola tutto retorica. Gli piacevano le grandi frasi
infarcite di aggettivi. Amava le trine ed i merletti. Sfuggiva gli angoli ed
adorava la sinuosità, la morbidezza. Andava in estasi per tutto ciò ch'era
ridondante. Ma l'amore per la tua terra era reale. Per questo orpellato di
retorica, facile nei modi, esteriore e troppo appariscente, faceva corpo con
la sua figura ed egli ne era permeato. Sì che ogni sua figurazione artistica fu
solamente in funzione d'elogio o di canto della terra che per lui era ancora
quella del Satta e della Deledda E pareva rimpiangesse quei tempi
passati, quei tempi mitici di gente selvatica e buona, di campagne desolate e
febbricose, di vento, di aquile e di falchi. C'era in lui quell'amara voluttà
di parlare della Sardegna, come d'una terra triste, povera e infelice,
quell'amara voluttà che, poiché c'è ancora chi la prova, rende gli spiriti
fiacchi e le volontà desolatamente fatalistiche. Forse da questo complesso di
sardità egli si lasciò travolgere quando irrequieto, turbato, indeciso non
riuscì più a convogliare la febbrile attività creativa in forme realizzate e
s'isterilì in tentativi strani di
industrializzazione così negata alle sue capacità. Forse si sentì
vinto, inchiodato come tutti i sardi in Sardegna alla neghittosità d'una malevolenza e d'un sarcasmo che scoraggiano le anime in cui si insinui un melanconico desiderio di essere compatite. Forse sentì il bel sogno
sfuggirgli dalle mani e fu richiamato
alla terra da necessità contingenti più forti d'ogni volontà. Certo è che la sua figura d'artista s'era offuscata, ed
offuscata tanto ch'egli stesso se ne avvedeva
e se ne sentiva morire. Gli irrequieti moti
della sua figura spirituale non nascondevano a chi lo conosceva l'amaro
del suo patimento. Egli sotto il riso proclamato celava il nibbio che gli rodeva il cuore.
La madre dell'ucciso (F. Altea: F.Ciusa - Ilisso) |
Tante volte ho pensato queste cose quando scherzavo per distrargli i pensieri ed
egli cadeva nella pania e non sapeva che io leggevo dietro la sua fronte alta
e chiara come nel più chiaro dei miei
volumi. Leggevo la storia di una inutile ribellione, il rimpianto di ciò che non era
avvenuto, il cruccio per ciò che avrebbe
dovuto essere. Vedevo fiamme sopite ridestarsi ed altre sopirsi dopo vivaci
attimi; inutili tentativi per ritorni non più possibili.
Infine lo
tormentava forse negli ultimi anni l'angoscia di essere lontano da Nuoro. Perché voi tutti che mi leggete non sapete che cosa sia Nuoro. Oh, no, non quella cittadina, che tutti conoscete col suo bel corso Garibaldi così garbatamente ottocentesco con i
suoi caffè e i suoi gagà. Nuoro, dico, quel grosso paese là in mezzo ai monti
d'Oliena e la cuspide di Gonari e l'Orthobene così vicino e selvoso, Non è un
luogo comune. E' una realtà. Dall'inferriata che limita un breve spazio che separa la cattedrale dal tribunale si vede la grande valle che è davvero di vigne foscoliane e di foscoliani uliveti. C'è da star li rapiti come se si fosse sospesi a mezz'aria in un paesaggio nuovo, in un
ambiente nuovo.
Nuoro antica |
Un ambiente
del '600, di quel '600 lussurioso e tetro che non rispettava titoli di nobiltà
e di santità ed invece i nobili erano tiranni e i religiosi, santi. Così a
Nuoro c’è preti che non dimenticano d'essere uomini e ciò li fa simpatici, c'è
nobili che son duri, incomprensivi e testardi e ciò li fa anacronistici, c'è
donne belle, delle più belle, e uomini che amici sono amici con lo stesso animo
che li fa al nemico nemici. C'è un carcere che pare la Bastiglia e fonti dove le donne ci vanno con la brocca. C'è gente che canta
per le vie con la chitarra e quella che gavazza nelle bettole. C'è una vita
che rispecchia la Sardegna, quella d'ieri. Qui non ci sorprenderebbe il
delitto ma nemmeno il miracolo.
Processioni dei misteri (china su carta) |
Forse Francesco Ciusa sognava questa terra di
scollacciate e umane conventicole dove tra il vino nero e la parola grassoccia
filtrava l'ora quasi inavvertibile. Annegata nella grigia uniformità della vita
cittadina ogni barbarica vampata d'allucinante colore, egli seguiva con
nostalgico desiderio le cavalcate iridescenti, le sagre montane fatte di vino
e di carne, quando non si sa più se lodare la fame o la sete ed i pensieri
s'ammorbidiscono e si sfumano in una ilare ebrietà color di sole donde
scaturisce l'animalesca brama di tutti gli istinti vitali.
Ma tutto era finito. Gli amici s'erano fatti pochi
e malcerti. La solitudine lo stringeva fuggitivo rasente ai muri scalcinati della città martoriata e sconvolta, ombra fuori del tempo.
Così morì Francesco Ciusa, ignoto in vita, già baciato giovane dal bacio più
bramato, compianto dopo la scomparsa, spogliato della scorie parassita degli
ultimi anni, bello della sua fisica bellezza, puro nell'intelligenza dei suoi
sogni, anima e cuore d'artista.
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