giovedì 21 agosto 2008

Castiadas: l'altra faccia della medaglia


Quello che oggi appare come un paradiso regalato da Dio a questa parte della Sardegna in realtà ha avuto origine da una situazione infernale. Migliaia di carcerati bonificarono il territorio, perfetto per il loro confino, “preparando il terreno” per le famiglie di coloni agricoli che si stabilirono nelle terre adiacenti il carcere. La lontananza dai centri urbani, la difficoltà per raggiungerli e la presenza continua della malaria, scoraggiava ogni volontà di fuga. La loro vita quotidiana era la seguente: la sveglia avveniva alle 6 del mattino. Il lavoro, sia nei campi all'aperto che nelle officine, si fermava dalle 12 alle 13 per il pranzo e poi proseguiva sino alle 17. Alle 18,30 i secondini eseguivano la conta e la chiusura dei dormitori, ed infine alle 19 veniva ordinato il silenzio. Le celle, ampie solo pochi metri quadrati, ospitavano un gran numero di detenuti. Il cibo veniva fatto passare attraverso piccole aperture poste sul soffitto o sui muri. Le infrazioni al regolamento venivano punite in modo medievale, il ritardo nell'obbedire, i guasti provocati al materiale in consegna, le grida, i canti, il rifiuto di sottomettersi alle punizioni e i tentativi di evasione provocavano la segregazione a pane e acqua. I casi di disobbedienza più gravi venivano puniti con la Cella Oscura a pane e acqua con ferri o camicia di forza oppure con la cella di isolamento per sei mesi. Coloro che non resistevano, andavano invariabilmente verso il suicidio o la pazzia”.
Non tutti i forzati subivano lo stesso trattamento. I più fortunati erano coloro che potevano lavorare nei campi, all’aria aperta, per i meno fortunati, e per i più indisciplinati, la vita carceraria era più dura. Ma anche all'aperto i gruppi di detenuti lavoravano nelle zone malsane, infestate dalle temibili zanzare apportatrici della malaria. Dimoravano presso baracche di legno lunghe 5 metri e larghe 2 e mezzo dotate di fitte reti metalliche alle finestre per impedire il passaggio dei terribili insetti. I condannati, indossavano una giubba rossa, il cappuccio di tela rigata di bianco e blu, quando lavoravano mettevano i guanti al solo dito pollice. Il cappuccio era simile a quello dei confratelli della misericordia, al posto dei due fori dinnanzi agli occhi aveva cucita una fitta rete metallica poco più di un decimetro quadrato.
Il personale manifestava poco entusiasmo, sia per il lavoro scarsamente retribuito che per il rischio che si correva a causa della zona infetta.
Così raccontano le cronache dei giornali dell'epoca. Un cronista dell'Unione Sarda Felice Senes riuscì ad intervistare alcuni detenuti.
Un detenuto napoletano di 40 anni, in carcere a Castiadas, condannato a 21 anni di reclusione per omicidio, racconta: Per 36 mesi ho vissuto in una cella, la cui larghezza era di tre piedi e la lunghezza di cinque piedi. Da un pertugio praticato nell'alto della soffitta, ricevevo quotidianamente il mio cibo. E' una pena di tortura, è un sepolcro di vivi: la legge consacrando fra le sue punizioni la segregazione cellulare, calpesta la natura dell'uomo…….eravamo sette napoletani, condannati nello stesso carcere alla segregazione cellulare, sei morirono, io solo ho resistito a quella indicibile tortura. Ora spero nella grazia… ".
(Foto e brani estratti dai siti: http://www.castiadasonline.it/ e: Viaggi al confine del mondo di Gianmarco Murru in http://www.marenostrum.it/, ai quali si rimanda per notizie più approfondite. )

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